“Il calcio è come la vita: non conta quante volte cadi, ma quante volte hai il coraggio di rialzarti”. E il ragazzo ghanese, di rialzarsi, non ha mai smesso.
Kumasi non è una semplice città. È il cuore pulsante del calcio ghanese, dove ogni angolo di strada si trasforma in un campo improvvisato e ogni bambino porta con sé un pallone come altri porterebbero un libro. È qui, in questa fucina di talenti, che Baba Sule, classe 1978, ha mosso i suoi primi passi nel calcio.
Il Kumasi Cornerstones FC diventa la sua prima casa calcistica. Un club di media classifica ma con una storia rispettabile, impreziosita da tre FA Cup (1959, 1965, 1989). È qui che il giovane Baba inizia a mostrare quello che gli osservatori chiamavano “il tocco degli dei”: una capacità innata di vedere il gioco un secondo prima degli altri, di far sembrare facili le cose difficili.
Cresciuto nell’ammirazione di Joe Aikins, eroe della Coppa d’Africa del 1963, Baba sviluppa uno stile di gioco che mescola la tecnica raffinata alla potenza fisica tipica del calcio africano. I suoi piedi sembrano parlare con il pallone in un dialogo silenzioso ma perfetto.
Le ottime prestazioni con il Cornerstones FC valgono la chiamata dei Black Starlets, la nazionale Under-17 del Ghana. È l’inizio di un viaggio che porterà quel ragazzo di Kumasi a sfiorare le stelle, prima di precipitare in un vortice di sfortuna e rinascita.
L’apoteosi ecuadoriana
L’estate del 1995 si trasforma in una stagione magica, di quelle che rimangono impresse nella memoria di un paese intero. I “Black Starlets“, come vengono chiamati i giovani talenti della nazionale Under-17 del Ghana, arrivano in Ecuador con l’energia e la spensieratezza tipica dei diciassettenni, ma con una fame di vittoria che traspare dai loro occhi. La vetrina offerta dalla sesta edizione del Campionato mondiale di calcio Under-17 è un’occasione irripetibile.
Baba Sule è parte di un gruppo straordinario. Quella squadra ghanese è un mix perfetto di talento grezzo e determinazione africana. Città dopo città – da Guayaquil a Portoviejo, da Quito a Ibarra, da Cuenca a Riobamba – i giovani ghanesi lasciano il segno del loro passaggio. Il loro calcio è un’esplosione di energia fisica e tecnica, qualcosa che l’Ecuador non ha mai visto prima.
Il cammino verso la gloria inizia con una vittoria contro i padroni di casa, una partita che serve a spazzare via ogni dubbio sulla forza mentale di questi ragazzi. Seguono le vittorie contro il Giappone, una squadra tecnicamente impeccabile ma fisicamente inferiore, e gli Stati Uniti, che nonostante la loro organizzazione tattica non possono nulla contro la velocità dei ghanesi.
Ma è nei quarti di finale contro il Portogallo che Baba Sule e compagni dimostrano di essere pronti per qualcosa di grande. I lusitani, storicamente sempre competitivi nelle categorie giovanili, sono letteralmente travolti dal ciclone ghanese. La semifinale contro l’Oman è poco più di una formalità, anche se i ragazzi del Golfo vendono cara la pelle.
E poi arriva il 20 agosto 1995, la finale contro il Brasile. Lo stadio Monumental di Guayaquil è un catino ribollente di passione. Da una parte i verdeoro, eredi di una tradizione calcistica senza eguali, dall’altra questi giovani leoni africani che stanno facendo sognare un continente intero. Al 39° minuto, il momento che avrebbe cambiato la vita di Baba Sule: un tiro con effetto di Joseph Ansah dal centrocampo, il portiere brasiliano Julio César che non trattiene, e lui, Baba, che si avventa sulla palla come un falco. Il tempo sembra fermarsi mentre il pallone attraversa la linea di porta, con un piccolo tocco di Emmanuel Bentil a suggellare il momento.
La corsa sfrenata che segue quel gol diventa l’immagine simbolo di quel Mondiale. Baba e Bentil che corrono abbracciati, mentre lo stadio esplode in un boato assordante.
“Quel momento, quel gol, quell’anno… Fu memorabile per me e per tutta la squadra“, ricorderà anni dopo Baba Sule con gli occhi lucidi. “Fu un momento magico per noi e per tutto il Ghana.” Non poteva sapere, mentre alzava quella coppa al cielo ecuadoriano, che quel trionfo sarebbe rimasto il punto più alto della sua carriera.
Quella squadra del 1995 ha tutto per dominare il calcio africano negli anni a venire. Stephen Appiah, Christian Gyan, Awudu Issaka: alcuni di loro faranno fortuna in Europa, altri si perderanno nel dedalo del calcio professionistico. Ma in quel momento, sotto il sole di Guayaquil, sono solo un gruppo di ragazzi che ha realizzato il sogno di ogni giovane calciatore: vincere un Mondiale.
Il salto in Europa: luci e prime ombre
Il passaggio dal calcio africano a quello europeo è come attraversare un ponte sospeso tra due mondi. Per Baba Sule, quel ponte porta alle Isole Baleari, dove il RCD Mallorca ha deciso di scommettere su questo diciottenne dal talento cristallino. È il 1996, e il calcio spagnolo sta vivendo una delle sue epoche d’oro, con un livello tecnico che attira talenti da ogni angolo del pianeta.
L’arrivo a Mallorca è come un tuffo in un oceano sconosciuto. Tutto è diverso: il ritmo degli allenamenti, l’intensità del gioco, persino l’aria che si respira negli spogliatoi. La Segunda División spagnola non è certo la Premier League, ma rappresenta comunque un salto quantico rispetto ai campi polverosi del Ghana. Baba si trova catapultato in un calcio fatto di tattica, di movimenti sincronizzati, di pressing asfissiante – un universo parallelo rispetto al calcio più istintivo e fisico a cui è abituato.
Le prime settimane sono promettenti. Gli allenatori vedono in lui quella miscela esplosiva di forza fisica e tecnica che ha fatto la differenza nel Mondiale Under-17. I compagni di squadra lo accolgono con curiosità e rispetto, consapevoli di avere tra loro un campione del mondo di categoria. Ma il destino ha in serbo per lui una prova durissima.
La diagnosi di epatite arriva come un fulmine a ciel sereno. In un momento in cui sta iniziando ad ambientarsi, in cui i suoi polmoni si stanno abituando all’aria del Mediterraneo, il suo corpo lo tradisce. La dirigenza del Mallorca si trova di fronte a una scelta difficile: rescindere il contratto o dare fiducia al giovane ghanese. È qui che emerge la prima luce in mezzo alle ombre: il club decide di permettergli di tornare in Ghana per curarsi.
“Quando mi diagnosticarono l’epatite, pensai che fosse la fine del mio sogno europeo“, ricorderà anni dopo. “Il Mallorca poteva facilmente liberarsi di me, invece mi diede una possibilità che non dimenticherò mai“. Il ritorno in patria per le cure è un viaggio nel tempo, un momentaneo ritorno alle origini mentre il sogno europeo rimane in standby.
La guarigione è lenta ma completa. Quando torna a Mallorca, gli esami medici confermano il suo pieno recupero. Ma tre partite in una stagione sono un bottino troppo magro per un giocatore che ha fatto sognare un continente intero. Il club decide allora per una soluzione intermedia: il prestito al CD Ourense, sempre in Segunda División.
In Galizia, Baba sembra finalmente trovare il suo ritmo. Il calcio torna ad essere gioia pura, le sue prestazioni migliorano partita dopo partita. Ma proprio quando la strada sembra in discesa, il destino gli presenta un nuovo conto salato: la frattura del cubito e del radio. Ventidue partite in quella stagione, sufficienti per contribuire alla salvezza dell’Ourense, ma ancora una volta insufficienti per spiccare definitivamente il volo.
La stagione successiva è un déjà-vu: stesso numero di partite, un gol all’attivo, e la sensazione crescente che il calcio europeo sia una battaglia continua contro gli infortuni. Eppure, nonostante tutto, il suo talento continua a brillare nelle rare occasioni in cui il suo corpo gli permette di esprimersi al meglio. Tanto da attirare l’attenzione di un club che non ha bisogno di presentazioni: il Real Madrid.
Il Real Madrid e il sogno incompiuto
Quando il Real Madrid bussa alla tua porta, non è solo una chiamata: è il destino che ti sussurra che sei pronto per la storia. Nel 1999, Baba Sule riceve quella chiamata che ogni calciatore sogna fin da bambino. La Casa Blanca non cerca un semplice centrocampista: cerca l’erede di Claude Makélélé, uno dei mediani più influenti della sua epoca. La pressione di un tale paragone avrebbe schiacciato molti, ma non Baba, che vede in questa opportunità la definitiva consacrazione dopo anni di alti e bassi.
Il piano del Real è tanto ambizioso quanto logico: far crescere il talento ghanese nel Castilla, la squadra B, per poi promuoverlo gradualmente in prima squadra. Un percorso che ha funzionato con molti altri talenti prima di lui. Ma c’è un ostacolo burocratico che nemmeno il potente Real Madrid può aggirare: le regole della Segunda División B, che all’epoca non permettevano il tesseramento di giocatori extracomunitari.
“Mi dissero che dovevo iniziare dal secondo team“, ricorda Sule con un misto di orgoglio e rimpianto nella voce. “Ma le regole erano chiare: quella divisione era riservata solo agli europei e agli spagnoli“. E’ così che il Real Madrid orchestra un piano B: un prestito al CD Leganés, club satellite nella periferia madrilena, con la promessa di un rapido ritorno una volta dimostrato il proprio valore.
Il precampionato con i “Pepineros” sarà elettrizzante. Baba sembra finalmente aver trovato la sua dimensione: il fisico regge, la tecnica c’è sempre stata, e la maturità acquisita nelle precedenti esperienze spagnole gli permette di leggere il gioco come mai prima. Gli osservatori del Real Madrid presenti alle amichevoli sorridono soddisfatti: l’investimento sembrava destinato a ripagare.
Poi arriva quel maledetto primo giorno di campionato contro il CD Logroñés. Il cronometro segna 63 minuti quando il ginocchio di Baba dice “basta”. Non è un semplice infortunio: è l’inizio di un calvario che lo avrebbe tenuto lontano dai campi per quasi quattro anni. Quattro anni in cui il sogno del Real Madrid si trasforma lentamente in un miraggio sempre più sfocato.
La resilienza di Baba emerge ancora una volta. Attraverso operazioni, riabilitazione e una determinazione ferrea, riesce a tornare in campo nella stagione 2003-2004, l’ultima in cui può essere ceduto in prestito secondo i regolamenti. Il destino sembra offrirgli un’ultima, incredibile opportunità quando Vicente del Bosque in persona si presentò a bordo campo per vederlo giocare.
“Mi avevano detto che Del Bosque era lì per me“, racconta Sule con voce tremante. “Se avessi fatto bene, mi avrebbero portato con la prima squadra per il precampionato in Giappone“. L’opportunità di una vita sta per materializzarsi nuovamente. Ma al minuto 86, in un’azione apparentemente innocua, il ginocchio cede ancora una volta. Un controllo di petto, una rotazione, e il sogno madridista si infrange definitivamente sul terreno di gioco.
I medici sono inequivocabili: continuare a giocare a certi livelli significherebbe rischiare di compromettere permanentemente la sua mobilità. Sette partite con il Leganés sono tutto ciò che rimane di quella parentesi che doveva essere l’anticamera della gloria.
Il Real Madrid, quel gigante del calcio mondiale che aveva visto in lui il potenziale successore di Makélélé, deve arrendersi all’evidenza. La Casa Blanca rimane un sogno incompiuto, una di quelle storie che fanno riflettere sulla fragilità delle promesse nel calcio professionistico. Ma forse, più di tutto, rimane il simbolo di come il destino possa essere crudele con i suoi scherzi: permetterti di toccare il cielo con un dito, solo per poi farti precipitare nuovamente a terra.
La reinvenzione: da stella a chauffeur
C’è qualcosa di poetico e al contempo struggente nel modo in cui il destino a volte riscrive le nostre storie. Per Baba Sule, la transizione da potenziale stella del Real Madrid a chauffeur, autista di un giovane David De Gea rappresenta forse il capitolo più emblematico della sua parabola calcistica.
Ma facciamo un passo indietro. Dopo il tramonto del sogno madridista, Sule tenta di rimanere aggrappato al calcio professionistico con le unghie e con i denti. E’ un pellegrinaggio attraverso la geografia calcistica spagnola: la UE Lleida, dove non gioca nemmeno un minuto, il Tomelloso dove colleziona 14 presenze, il San Isidro con 9 apparizioni, la Rapitenca in Tercera División, fino al Rayo Majadahonda. Sono briciole di calcio, lontane anni luce dai riflettori del Santiago Bernabéu che aveva solo sfiorato.
Ma è proprio quando il sogno calcistico sta definitivamente svanendo che il fato gli riserva una curiosa svolta. Lo stesso agente che ha gestito la sua carriera rappresenta anche un giovane portiere dell’Atletico Madrid: David De Gea. All’epoca, De Gea è poco più che un adolescente, un ragazzo che divide il suo tempo tra gli allenamenti e la scuola, sognando di diventare il numero uno dei Colchoneros.
“Fu una decisione che nacque da una discussione con il mio agente“, ricorda Sule. “Accordammo che avrei accompagnato David agli allenamenti e poi a scuola. Era giovanissimo allora, ma aveva già qualcosa di speciale“. La vita ha un senso dell’ironia particolare: l’ex predestinato del calcio mondiale si ritrova a guidare l’auto di quello che sarebbe diventato uno dei portieri più forti al mondo.
Ma Baba non si limita a fare l’autista. Nelle lunghe tratte in auto verso Majadahonda, dove l’Atletico si allena, si crea un rapporto speciale tra i due. Il giovane De Gea ascolta rapito i racconti di quel Mondiale Under-17 vinto in Ecuador, delle esperienze in Segunda División, del sogno Real Madrid sfumato. E’ come se la storia di Sule servisse da monito e da ispirazione allo stesso tempo per il giovane portiere.
Parallelamente, Baba inizia a studiare per diventare elettricista. Le mattine al volante, i pomeriggi sui libri di elettrotecnica. E’ una vita molto diversa da quella che aveva sognato quando segnava contro il Brasile in quella finale mondiale, ma c’è una dignità profonda nel modo in cui ha accettato questa nuova realtà.
“Guardando indietro“, riflette Sule, “è straordinario pensare di aver fatto parte, anche se in un ruolo completamente diverso, del percorso di uno dei migliori portieri al mondo“. In quelle parole non c’è amarezza, ma una sorta di orgoglio paterno per aver contribuito, anche solo come autista, alla crescita di un campione.
Un destino più grande del calcio
Mentre il sole tramonta sul campo del Fuenlabrada, dove oggi lavora come magazziniere del club locale, Baba Sule sistema le ultime divise negli spogliatoi. Le sue mani, che un tempo accarezzavano palloni destinati a finire in rete, ora piegano con cura le maglie dei giocatori. C’è una compostezza particolare nei suoi gesti, la stessa che ha mantenuto in ogni singolo giorno da quel maledetto minuto 86, quando il ginocchio decise di tradirlo per l’ultima volta.
La sua storia potrebbe essere letta come una tragedia sportiva: il bambino ghanese che conquistò il mondo a 17 anni, che fece sognare una nazione intera, che sfiorò la gloria del Real Madrid per poi vederla sgretolarsi tra le dita come sabbia al vento. Ma sarebbe una lettura superficiale, incapace di cogliere l’essenza più profonda di quest’uomo.
Perché Baba Sule è molto più di una promessa non mantenuta del calcio mondiale. È il simbolo di una resilienza che va oltre lo sport. Da stella nascente a chauffeur, da elettricista a magazziniere: ogni nuovo capitolo della sua vita è stato affrontato con lo stesso spirito combattivo che lo ha sempre contraddistinto in campo.
“Il calcio mi ha dato tutto e mi ha tolto tutto“, dice oggi con un sorriso che nasconde mille storie. “Ma mi ha insegnato che la vita è più grande di un sogno infranto“.
Nel vedere i giovani calciatori del Fuenlabrada che lo salutano con rispetto, chiamandolo “Mister Baba“, si capisce che il suo impatto sul calcio non è finito con quella maledetta lesione al ginocchio. Ha solo cambiato forma. Ora trasmette ai giovani non solo la sua esperienza tecnica, ma soprattutto quella saggezza che solo chi ha toccato il cielo per poi precipitare può possedere.
“Ogni mattina, quando apro gli spogliatoi“, racconta, “sento lo stesso brivido di quando entravo in campo. Perché il calcio non è solo quello che succede nei 90 minuti, è tutto ciò che c’è intorno. È famiglia, è passione, è vita“.
Vedere Baba Sule oggi, mentre si muove con naturalezza tra le sue mansioni al Fuenlabrada, è come assistere a una lezione vivente di resilienza. Il suo sorriso, genuino e contagioso, racconta di un uomo in pace con il proprio destino, consapevole che forse il suo compito nel mondo del calcio era più grande del semplice giocare.
Fonti:
https://www.kodromagazine.com/baba-sule/
https://en.wikipedia.org/wiki/Baba_Sule