Dal palo di Rensenbrink nel ’78 alla disfatta di Napoli nell’80: come l’Olanda senza campioni perse tutto. La lezione degli Europei 1980 insegnò che servono stelle, non solo tattica.
Se quel tiro di Rob Rensenbrink nella finale del Mundial 1978 contro l’Argentina, anziché finire la sua corsa contro il montante della porta difesa da Fillol, fosse terminato in fondo al sacco, la storia del calcio sarebbe stata completamente diversa. Il novantesimo minuto era passato da 12 secondi, il punteggio era ancora fermo sull’1-1, e quella palla che colpì il legno rappresentò probabilmente l’ultima vera occasione dell’“Arancia Meccanica“ di conquistare un trofeo internazionale.
Già nel 1974, l’Olanda aveva stupito e rivoluzionato il mondo del calcio portando una ventata di aria fresca mai vista prima. Il calcio totale predicato da Rinus Michels, con Johan Cruijff come epigono ed eponimo, aveva conquistato l’immaginario collettivo degli appassionati. Tanto gioco, tante emozioni, ma alla fine la Coppa era stata appannaggio di Franz Beckenbauer e compagnia. Il segno lasciato dalle legioni orange era rimasto tangibile nei moduli tattici sviluppati dagli allenatori dei quattro angoli del globo.
Argentina 1978: l’occasione perduta

In Argentina, quattro anni più tardi, la musica era cambiata. L’addio di qualche “musicista” fondamentale si era fatto sentire, e il gioco ne aveva risentito in misura notevole. Il ricambio generazionale in alcuni ruoli chiave aveva inevitabilmente abbassato il livello della squadra. Un’Olanda prima fortunata – ricordate quei gol rocamboleschi a Zoff da quaranta metri contro l’Italia? – e quindi sfortunatissima con il palo già citato, lasciò il secondo titolo consecutivo nelle mani dei padroni di casa.
Il ciclo, a quel punto, sembrava ovviamente destinato a chiudersi. Rimaneva solamente l’Europeo del 1980, in programma in Italia, sulla strada degli arancioni: l’ultima possibilità di marcare a chiare lettere il proprio nome in un albo d’oro di prestigio.
Qualificati grazie al “miracolo di Lipsia”
L’Olanda riuscì a qualificarsi alla competizione vincendo il Gruppo 4 con 13 punti, 20 gol segnati e solo 6 subiti. Guidati da Jan Zwartkruis, affrontarono Polonia, Germania Est, Svizzera e Islanda tra settembre 1978 e novembre 1979, conquistando 6 vittorie, 1 pareggio e 1 sconfitta.
Il momento decisivo fu il cosiddetto “miracolo di Lipsia” del 21 novembre 1979: sotto 2-0 dopo mezz’ora contro la Germania Est nell’ultima partita di qualificazione e ridotti in 10 uomini dopo l’espulsione di Gerard Ling, tutto sembrava perduto ma l’Olanda riuscì incredibilmente a rimontare vincendo 3-2 grazie ai gol di Frans Thijssen, Kees Kist e René van de Kerkhof e staccando così il biglietto per Euro 80.
Una squadra senza stelle
All’appuntamento italiano dell’estate 1980, gli olandesi si presentarono con una formazione profondamente mutata rispetto ai fasti del recente passato. Non c’erano Cruijff e Neeskens, volati in America per raccogliere effimera gloria e dollari pesanti. Mancavano anche Suurbier, Haan e Rensenbrink: assenze pesanti come macigni, vuoti impossibili da colmare.

La nuova generazione aveva lanciato sulla scena un centravanti di notevoli qualità realizzative, Kees Kist. Un tipo sempre fuori dal giro delle “grandi” Ajax, PSV e Feyenoord, che militava nell’AZ 67 di Alkmaar, provinciale destinata a un breve quarto d’ora di notorietà. Al suo fianco, il reparto offensivo proponeva il vecchio Johnny Rep, le cui batterie si erano scaricate ormai da qualche anno, e i gemelli Willy e René Van de Kerkhof, tipiche espressioni del calcio totale, giocatori di grande dinamismo e lucidità tattica.
In difesa, solo Ruud Krol aveva resistito all’usura del tempo: divenuto libero di altissime capacità, i suoi supporti in campo si chiamavano adesso Poortvliet, Wijnstekers, Stevens, Van de Korput e Hovenkamp. Mediocri sostituti di fuoriclasse come Suurbier, Haan e Rijsbergen. La guida tecnica era affidata a Jan Zwartkruis, chiamato a raccogliere una pesante eredità.
L’esordio stentato
L’Olanda iniziò il torneo con una prevista ma risicatissima vittoria contro la Grecia, vera “cenerentola” del torneo all’esordio assoluto in una competizione internazionale. Il gol dell’1-0 fu firmato da Kist su rigore. Troppo poco per poter aspirare a qualcosa di importante. La prestazione fu opaca, priva di quella verve che aveva caratterizzato le generazioni precedenti. Gli orange sembravano una copia sbiadita di sé stessi.
La disfatta di Napoli

La conferma della povertà tecnica della formazione olandese arrivò con il big-match contro i favoritissimi tedeschi, disputato allo stadio San Paolo di Napoli il 14 giugno 1980. Fu il giorno di Klaus Allofs, all’epoca ventitreenne attaccante del Fortuna Düsseldorf, che realizzò una memorabile tripletta.
La Germania Ovest di Jupp Derwall mise in campo una prestazione devastante, grazie alle penetrazioni di Kaltz, Stielike e Dietz, alle corse eleganti di Bernd Schuster (alla sua prima grande apparizione internazionale) e alle finezze tecniche di Hansi Müller. Il giovane Schuster fu determinante in tutti e tre i gol tedeschi: prima colpì un palo su un retropassaggio sfortunato, permettendo ad Allofs di ribadire in rete; poi liberò Müller che servì Allofs per il raddoppio; infine, sfondò sulla linea di fondo e con un passaggio all’indietro consentì ad Allofs di completare la tripletta.
Dopo ottanta minuti, il punteggio era impietoso: 3-0 per la Germania. L’Olanda sembrava completamente affossata. Gli orange riaccesero timide speranze quando il diciannovenne Lothar Matthäus, alla prima presenza in nazionale, commise fallo su Bennie Wijnstekers in area. Johnny Rep trasformò il rigore all’80’. Cinque minuti dopo, un magnifico tiro dalla distanza di Willy van de Kerkhof – forse il miglior gol della partita – rese meno pesante il passivo finale: 3-2. Ma a nulla servì questa reazione d’orgoglio nel recuperare due reti negli ultimi dieci minuti dell’incontro.

La Germania emergeva come chiara favorita per la vittoria finale, e avrebbe poi conquistato il titolo battendo in finale il Belgio 2-1 allo stadio Olimpico di Roma, grazie a una doppietta di Horst Hrubesch.
L’inutile pareggio finale
Un platonico pareggio per 1-1 contro i cecoslovacchi campioni uscenti nell’ultima partita del girone non servì a rendere meno amara la verità. L’epopea orange si era definitivamente chiusa. L’Olanda veniva eliminata prima delle finali (il torneo del 1980 prevedeva una formula particolare con due gironi da quattro squadre, senza semifinali), lasciando il campo a tedeschi e belgi.

Il significato di una caduta
L’addio dell’Olanda ai vertici del calcio mondiale – non sarebbe riuscita a qualificarsi per la fase finale di un torneo internazionale fino al 1988, quando l’Europeo di Germania sarebbe stato poi vinto proprio dagli arancioni guidati da Marco van Basten, Ruud Gullit e Frank Rijkaard – ebbe innanzitutto un valore storico riconoscibile a posteriori.
Quella squadra dimostrò una verità fondamentale del calcio: non è il modulo, o non è solamente il modulo, a poter fare grande una squadra. Innanzitutto servono i campioni, quelli con la C maiuscola. Il calcio totale olandese aveva funzionato perché c’erano Cruijff, Neeskens, Rensenbrink, Haan: giocatori di talento assoluto, capaci di interpretare qualsiasi ruolo con maestria.
Senza di loro, anche il sistema tattico più brillante si rivelava inefficace. L’Olanda del 1980 non aveva le individualità per competere ai massimi livelli, e pagò duramente questa carenza e i sostituti, pur volenterosi, non possedevano la qualità necessaria per colmare il vuoto lasciato dai grandi campioni del passato.