Rimet, la Coppa dei misteri

Aneddotti incentrati sulla prima Coppa che ha rappresentato il Campionato del Mondo di Calcio, la Coppa Rimet. Passata tra infinite mani, rubata, recuperata e infine (pare) fusa. Una fine ingloriosa per la “madre” di tutte le Coppe…

TRA LE FOTO di soggetto calcistico che hanno raggiunto maggior successo, un posto a sé lo merita giustamente un’immagine scattata il 21 giugno 1970 all’Azteca di Città del Messico e che ritrae Pelé mentre alza al cielo il trofeo che la nazionale brasiliana, battendo 4-1 l’Italia e vincendo il suo terzo mondiale, si aggiudica definitivamente. Portata in Brasile con tutti gli onori, la Coppa Rimet era custodita in una sala della sede della Federcalcio a Rio. Pochi sanno che fu rubata e, dopo avere a lungo sperato di ritrovarla, arrivò la conferma che la Vittoria alata stile liberty realizzata alla fine degli Anni Venti da Abel La Fleur fu trasformata… in lingotti d’oro che sono stati venduti! Ripercorriamo le principali vicissitudini della Coppa Rimet.

LA PRIMA VOLTA

Quando Jules Rimet, facoltoso signore francese e presidente di quella Federazione decise di dar vita al Campionato del mondo, dopo aver vinto la sua battaglia, nel 1928 diede incarico ad Abel La Fleur, orafo parigino cresciuto alla scuola di Cartier, di realizzare un trofeo che avesse per tutti lo stesso enorme significato che l’idea meritava. A quei tempi, il liberty e l’art déco stavano vivendo i loro ultimi momenti di auge per cui nessuno si meravigliò quando La Fleur propose il suo progetto: una statua rappresentante una vittoria alata che regge una coppa ed appoggiata ad un piedistallo di marmo a base ottagonale. Peso complessivo: 4 chilogrammi di cui un chilo e otto etti di oro a 18 carati.

Ottorino Barassi
Ottorino Barassi

Messa in palio la prima volta a Montevideo nel 1930, la Coppa raggiunse l’Uruguay a bordo del piroscafo italiano Conte Grande e per quattro anni rimase nella capitale uruguaiana. A Roma dal ’34 al ’38. vi ritornò all’indomani della seconda vittoria azzurra ai Mondiali di Parigi ed è proprio da noi che il trofeo visse il primo dei suoi momenti difficili. Allo scoppio della guerra, la Coppa Rimet era a Roma in quanto l’Italia ne era stata l’ultima vincitrice acquisendo il diritto di tenerla presso di sé sino al momento di consegnarla alla Nazione che avrebbe organizzato il Mondiale successivo. A conservarla fu l’ingegner Ottorino Barassi, segretario della Federcalcio, che la nascose a casa sua, in piazza Adriana. Quasi due chili d’oro, per una Nazione come la Germania che aveva bisogno di metallo giallo come dell’aria e che cercava di ottenerne con tutti i mezzi, anche i più illeciti, facevano gola. Ecco allora che dalla «Platzkommandantur» di Roma parte un ordine: recuperare la Coppa Rimet ad ogni costo.

SOTTO IL LETTO

La soluzione del problema viene affidata ad SS e Gestapo che si presentano a casa di Barassi. Il tono è perentorio e la richiesta precisa: fuori la coppa sennò son guai: Barassi guarda i suoi interlocutori come fossero marziani e poi dice che lui la Coppa non ce l’ha perché l’hanno portata a Milano quelli del Coni e della Federazione. Spiacente, non può essere di nessun aiuto. Per una volta i tedeschi si lasciano convincere e, dopo aver perquisito la casa di Piazza Adriana da un capo all’altro, escono a mani vuote. Barassi, finalmente solo, si lascia cadere su di una poltrona mezzo morto dalla paura ma anche soddisfattissimo per aver salvato un trofeo così importante! Subito dopo, ringrazia il Padreterno perché i tedeschi, che pure gli hanno messo a soqquadro la casa, non hanno guardato sotto il letto, luogo da sempre deputato a miglior nascondiglio di tutto e di tutti! Nel ’46 in Lussemburgo (la guerra è finita da poco) il mondo cerca di riassaporare la pace e, tra le cose cui affida questo messaggio di speranza, è anche il calcio, rappresentato nella fattispecie dalla Coppa Rimet che tutti vogliono organizzare al più presto e che Barassi porta nel Granducato!

LA SECONDA VOLTA

Marzo 1966, Westminster Hall di Londra: l’Inghilterra ha avuto l’incarico di organizzare i Mondiali e. per solennizzare l’avvenimento, organizza una mostra di francobolli sportivi il cui valore, assicurato presso i Lloyds, supera i sei miliardi di allora. Pur se con i francobolli la Coppa Rimet non c’entra, viene esposto anche il trofeo che però, il 20 marzo, viene rubato. Chi ha commesso il furto? Scotland Yard brancola nel buio. Due stazioni della metropolitana – Charing Cross e Birmingham – vengono strette d’assedio e rovistate in tutti gli angoli ma senza nessun risultato utile. La cosa che più fa pensare è che il ladro ha completamente ignorato i francobolli (che valgono ben di più) per dedicare le proprie attenzioni unicamente al trofeo: perché? Ma perché l’oro si può fondere, ammonisce qualcuno cui però non viene dato molto credito. Certo è che, in tutta questa storia, chi ne esce con le ossa rotte è proprio la civilissima Inghilterra.

Passano i giorni e la polizia continua a non capirci niente, tanto è vero che all’inizio punta i suoi sospetti su un quarantenne alto, bruno, capelli impomatati e poi arresta Edward Betchley, 47 anni, portuale disoccupato che proprio non c’entra tanto è vero che sarà scarcerato pur se dietro cauzione. Un giorno, a Lancaster Gate sede della Football Association, arriva una lettera anonima: al suo interno, la proposta per una trattativa e un piccolo frammento del basamento di marmo: chi ha rubato la Rimet non l’ha ancora – per fortuna! – fusa ed è disposto a mettersi d’accordo. A questo punto, però, il giallo… cambia colore e diventa rosa: Pickles (ossia sottaceto) cagnetto senza pedigree di David Corbett – ventisei anni, impiegato in un’agenzia di viaggi – mentre è fuori col suo padrone per un bisognino, comincia ad annusare un pacco, ne strappa la carta di giornale con cui è avvolto e ne mette a nudo il contenuto: la Coppa perbacco!

A questo punto (è passata una settimana esatta dal giorno del furto) l’incubo si dissolve, l’Inghilterra ritrova tutt’intera la sua immagine e la statua di Abel La Fleur torna a Westminster Hall. Tutto il mondo tira un profondo sospiro di sollievo anche se il giallo resta per la sua più larga parte irrisolto: chi ha rubato, infatti, il trofeo? È stato Edward Betchley? E se anche fosse così, perché e per conto di chi l’ha fatto? La vicenda scatena una ridda di ipotesi e di supposizioni tra le quali la più accreditata vuole che la «vera» Coppa Rimet sia stata rubata e che, una volta copiata, una sua imitazione sia stata resa a chi di dovere. L’ipotesi, come si vede, è degna di Agatha Christie o di qualche altro scrittore di romanzi polizieschi anche se un’eventualità del genere è tutt’altro che da escludere. In caso contrario, infatti, proprio non si vede perché mai il ladro, una volta entrato in possesso del prezioso trofeo, se ne fosse dovuto disfare senza chiedere nulla in cambio. Ma perché poi lo abbandonò in un giardinetto col rischio che un pacco tanto prezioso venisse scambiato per spazzatura e buttato via? Tutte queste sono domande rimaste sempre senza risposta così come senza risposta è rimasta forse la più importante: chi pagò la forte somma necessaria a Edward Betchley per riguadagnare la libertà? Lo stesso portuale no di certo in quanto povero in canna: e allora? Allora, giallo era e giallo è rimasto.

Pickles (ossia sottaceto) cagnetto senza pedigree di David Corbett
Pickles (ossia sottaceto) cagnetto senza pedigree di David Corbett

LA TERZA VOLTA

Ciò che, nel giro di una ventina d’anni, non era riuscito a tedeschi ed inglesi, riesce a cinque brasiliani di cui uno – Sergio Pereira Alves – è un ex dipendente della Federazione e un altro – Francisco José Rocha Rivera – è un ex poliziotto privato. Due del gruppo, la sera del 19 dicembre 1983, entrano nella sede della Federazione, minacciano il custode con pistola e coltello, lo legano e salgono al nono piano dove, nell’ufficio di Giulite Coutinho, fa bella mostra di sé il trofeo che il Brasile si è aggiudicato definitivamente in Messico. Presa la coppa, i due se ne escono tranquillamente col loro tesoro sotto il braccio, certi che nessuno li disturberà in quanto hanno lasciato il custode legato come un salame. L’allarme scatta a notte fonda e il primo a confermare ufficialmente che, sì, il trofeo rubato è proprio la Rimet, è Althemar Dutra Castilhos, presidente degli arbitri. A questo punto, la sola cosa che ancora manca è la certezza che l’oro del trofeo sia stato fuso, il che avviene alcuni giorni più tardi quando la polizia comunica ufficialmente che, trasformati in lingotti, i 1800 grammi d’oro più famosi del calcio mondiale (valore oltre 200 milioni dell’epoca, senza considerare quello affettivo) sono stati fusi e venduti esattamente per un quarto. Un prezzo davvero stracciato!

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Appendice fornita gentilmente da un nostro Lettore, Sebastiano Calì:

 
Ho letto molto a riguardo, tra l’altro lo splendido libro di Martin Atherton “the theft of the Jules
Rimet trophy”, ed ho con lui chiacchierato a proposito della storia incredibile del trofeo.
Dunque, per quello che ne so io (confortato dallo stesso Atherton e da diverse fotografie) la coppa
Rimet non era affatto d’oro, ma di argento placcato d’oro! Questo si può anche desumere da alcune
foto del trofeo originale nel quale si intravede un po’ lo scolorimento della patinatura d’oro, che
lascia intravedere il color argento sottostante. Da questo si possono dedurre alcune cose: la coppa
Rimet, a mio parere, non era cercata dai nazisti per fonderla in lingotti poiché, d’altra parte, i nazisti
a mettere insieme un chilo e otto di oro ci avrebbero messo mezz’ora, confiscando in un palazzo
tutti gli oggetti preziosi, se non addirittura come nei casi peggiori denti d’oro ecc. Più probabilmente
a mio avviso (ma questa è solo una congettura) Hitler cercava il sacro Graal dello sport per il suo
fascino misterioso, dato che lui, come si sa, era attratto da ciò che era esoterico.
 
Tra l’altro la storia di Barassi che avrebbe nascosto la coppa sotto il letto non è esatta.
Nel libro “Il Generale Vaccaro”  di Mario Pennacchia, il quale conobbe personalmente il gerarca, si
legge la vera storia: una volta venuto a sapere della “visita”della gestapo a casa sua in Piazza
Adriana, Barassi si mise d’accordo con il generale Vaccaro; una volta che i nazisti arrivarono a casa
sua, lui fece aprire dalla moglie, e intanto passò la coppa avvolta in un giornale a Vaccaro attraverso
i balconi che confinavano!
Così i nazisti misero a soqquadro la casa di Barassi e non trovarono nulla; ma ovviamente non si
arresero e fecero immediatamente visita a Vaccaro, il quale nascose il trofeo in una scatola di scarpe
sotto il lettino del figlio. Quindi accolse i visitatori nel suo studio mostrando la sua collezione di trofei
sportivi e non solo e dicendo di non avere la coppa. Quando i nazisti si trovarono di fronte una
pergamena dedicata a Vaccaro firmata da Goering in persona alzarono i tacchi e sparirono! Ecco la
vera storia del salvataggio della coppa Rimet!
 
Una precisazione sulla storia del furto del 1966. All’interno della lettera recapitata a Joe Mears nella
quale si chiedeva il riscatto, non c’era un pezzo della base di lapislazzuli, ma la testa rimovibile
(simile ad un posacenere) del trofeo! Tant’è vero che nella foto scattata dalla polizia al momento del
ritrovamento da parte di David Corbett, la coppa è ancora avvolta nel giornale e non ha la suddetta
testa rimovibile!
Sulla storia del possibile “scambio” di trofei dopo aver copiato l’originale mi sento di poter
escludere categoricamente la sostituzione per due motivi: primo, la base di lapislazzuli è quella
originale (confrontare le foto del ritrovamento e quelle precedenti); secondo, per poter realizzare
una copia esatta e perfettamente cesellata della coppa Rimet, occorre almeno un mese di lavoro!
Tra copiatura in calco, realizzazione della cera, finitura di quest’ultima, creazione della madreforma,
fusione del metallo, cesellatura finale del trofeo, doratura galvanica ecc, soprattutto per i mezzi del
1966. Realizzare tutto ciò in sette giorni non è possibile! Così rimarrà un mistero il furto con
ritrovamento canino!
 
Per cui, per i sopraelencati motivi, rimango estremamente dubbioso sul fatto che la Rimet sia stata
fusa: un chilo e otto di argento non valgono pressoché nulla! Così sono molto più portato a
pensare che la meravigliosa statuetta si possa trovare nelle mani di qualche milionario
collezionista,attratto fatalmente dalla bellezza e dalla storia di questo unico e leggendario trofeo;
magari si trova proprio in Italia, come sostenuto da Juan Carlos Hernandes, l’Argentino trafficante
d’oro, implicato nella storia del furto a Rio de Janeiro, il quale nella sua deposizione disse che il
furto venne commissionato da un milionario italiano, e che il trofeo si troverebbe in Italia…