VALCAREGGI Ferruccio: una vita nel pallone

Zio Uccio. Ecco: Ferruccio Valcareggi fu per davvero uno zio per il nostro pallone. Uno zio buono, mai banale, che sapeva dare un senso al gioco e alle parole. Uno zio che, con il suo sorriso lieve, illustrò, con capacità ed eleganza, quel calcio romantico, quel calcio “mistero senza fine bello”. Quel calcio che è la nostra nostalgia, il nostro rimpianto.
Darwin Pastorin

Una vita nel pallone, senza ombra di retorica. Quindici anni da calciatore con 395 partite giocate, 91 gol realizzati; 23 da allenatore, di cui nove alla guida della nazionale; due anni selezionatore della rappresentativa di serie B; tre anni quale consulente del settore giovanile azzurro; nove da direttore generale della Scuola Calcio “Settignanese”. Inizia da adolescente questa sua infinita presenza nel calcio con un pallone tra i piedi nelle strade del rione Gretta di Trieste, la città dove è nato il 12 febbraio 1919. Viene tesserato per la Ponziana, una squadretta rionale che affronta e batte 7-0 i ragazzi della Triestina. Una settimana dopo quella partita Valcareggi, appena tredicenne, viene tesserato con i boys della Triestina. Nella prima squadra alabardata anche tre azzurri, Rocco, Colaussi e Pasinati. Nel campionato 1934-35 gioca nelle riserve, stipendio 150 lire al mese, e nel marzo 1938, diciannovenne, al posto dello squalificato Grezar, debutta nel grande calcio contro il Genoa. Tre stagioni con la Triestina (nella prima 1937-38 gioca solo sette partite), una sola assenza per squalifica perchè espulso, unico cartellino rosso in carriera. Nel 1940, rientrato a Trieste dal servizio militare, apprende di essere stato ceduto alla Fiorentina per 200.000 lire più Tagliasacchi e Simontacchi.

A Firenze Valcareggi trova il burbero, ma ottimo allenatore Galluzzi, forma con Baldini, Ellena e Poggi un quadrilatero di lusso, ed è vittorioso per tre volte sulla grande Juve. Ma nel 1943 a causa della guerra il campionato viene sospeso. Valcareggi gioca nel torneo regionale che la Fiorentina si aggiudica superando 3-1 in finale il Livorno. In quel periodo per Valcareggi anche una parentesi milanista. Viene infatti ingaggiato per il derby contro l’Inter. Durante la partita, con l’Arena zeppa di spettatori, suonano le sirene per avvertire del pericolo di un bombardamento aereo. Ma la partita prosegue, il Milan vince e Valcareggi rientra a Firenze con un premio di 650 lire. Al suo arrivo lo attende una notizia poco gradita: la Fiorentina, per sanare un deficit di 800.000 lire, lo ha ceduto al Bologna incassando un milione e 100.000 lire, cifra quasi record.

Due stagioni con la maglia bolognese. Nella prima, 1945-46, campionato Italia Nord; nell’altra girone unico. Una linea d’ attacco che “faceva tremare il mondo”: Biavati, Valcareggi, Cappello, Arcari, Reguzzoni. Chiusa la parentesi felsinea, di nuovo a Firenze, viola allenati da Ferrero. Ma solo per una stagione, per passare, in uno scambio con Sperotto, al Vicenza, serie B. Risultato: secondo posto dietro la Roma. Per Valcareggi, dunque, le ultime due stagioni, dal 1949 al 1951, in serie A con la Lucchese. Lasciata Lucca, Valcareggi gioca per un anno a Brescia, serie B, allenatore Bonizzoni, secondo nella classifica finale; quindi sempre per la serie cadetta (1952-53) passa al Piombino dove ricopre il ruolo di giocatore, allenatore, capitano e accompagnatore.

Qui chiude, dunque, in sordina la carriera di giocatore e inizia, sempre a Piombino, serie C, stagione 1953-54 quella di allenatore a tempo pieno, per passare l’anno successivo al Prato. Un quadriennio interessante con la conquista la promozione in serie B e la vittoria del suo primo Seminatore d’oro. Valcareggi è un tecnico emergente e vola a Bergamo chiamato a dirigere l’Atalanta in serie A. Tre stagioni – dal 1959 al 1962 – stupende, mai un problema di classifica, risultati eccellenti, buoni giocatori come l’argentino Humberto Maschio. Firenze è la successiva naturale destinazione. Prima stagione modesta; seconda (1963-64) addirittura negativa per Valcareggi tanto che, perduta la partita a Vicenza – contestato anche perchè aveva tolto un campione, Seminario, per mettere in campo il giovane Brugnera – rassegna le dimissioni. Rimarrà l’unico esonero della sua carriera. Torna a Bergamo, ma non trova l’accordo con i dirigenti. E allora si trasferisce a Lido di Camaiore.

E qui, sulle sponde del Tirreno, nasce l’avventura della nazionale. Accetta infatti l’offerta di Artemio Franchi di entrare nello staff tecnico azzurro come secondo del commissario tecnico Edmondo Fabbri. Dopo la disfatta dell’Italia ai mondiali del 1966 in Inghilterra, Valcareggi assume l’incarico di c.t. insieme, per le prime due partite, a Helenio Herrera. Poi da solo. Conferma, nelle sue linee essenziali, la squadra construita da Fabbri. Tra le poche novità le convocazioni dei napoletani Juliano e Bianchi e dello juventino De Paoli. Nel 1968 conquista il titolo europeo battendo, in una doppia indimenticabile finale contro la Jugoslavia. Primo e unico titolo continentale per l’Italia.

E’ la squadra, salvo qualche modesto ritocco, che Valcareggi presenta ai campionati del mondo del 1970 in Messico. La storia infinita della staffetta Rivera – Mazzola; i “famosi 6 minuti” di Rivera al posto di Boninsegna nella finalissima; il secondo posto dietro al Brasile di Pelè.
Al rientro a Roma Valcareggi viene aspramente contestato – lascia l’aeroporto su un cellulare della polizia – ma il giorno successivo è ricevuto, con tutta la comitiva azzurra, dal capo della Repubblica, quindi rientra tranquillamente a Firenze. La nazionale riprende l’attività con risultati soddisfacenti. Nel 1973 gli azzurri di Valcareggi mettono in fila undici partite senza subire nemmeno un gol. Centrano pure due vittorie, le prime in assoluto, contro l’Inghilterra.

E Valcareggi conquista così il suo secondo Seminatore d’oro. Nel 1974 buon avvio degli italiani nelle partite valide per i campionati del mondo. Poi con Riva e Rivera in precarie condizioni fisiche, per qualche screzio all’interno del gruppo, come quello con Chinaglia a Stoccarda nella partita contro Haiti, la situazione si deteriora. La sconfitta contro la Polonia che eliminava, per differenza reti, l’Italia dai mondiali, fa decidere Valcareggi a lasciare la guida della nazionale. Torna nella sua casa di Lido di Camaiore. Riceve tanti attestati di solidarietà – anche Mario Cecchi Gori, Paolo Bertolucci e Adriano Panatta – ma la mattina del 25 giugno del 1974 Valcareggi informa telefonicamente Franchi che intende passare la mano.

Al suo successore Fulvio Bernardini, che va a trovarlo a Lido di Camaiore, dice di continuare a servirsi della preziosa collaborazione di Enzo Bearzot e Azeglio Vicini. A riposo nella stagione 1975, quindi Valcareggi torna in panchina per guidare il Verona. Tre stagioni indimenticabili. Buona intesa col presidente Garonzi, validi risultati, bel calcio. Poi uno scampolo di campionato sulla panchina della Roma per tirarla fuori dai guai di classifica; quindi di nuovo alle dipendenze della Federcalcio nel ruolo, per due anni, di selezionatore della rappresentativa di serie B. E in quella veste porta alla ribalta alcuni giocatori tra i quali Vialli.

Nel campionato 1984-85 ritorna sulla panchina della Fiorentina – in sostituzione di De Sisti – vince a Torino contro la Juventus, salva i viola ma lascia quel posto per assumere l’incarico di coordinatore delle nazionali giovanili minori. Il congedo da quel suo ultimo compito federale, svolto per tre anni, avviene in modo improvviso e traumatico, cioè con una lettera fredda e convenzionale scritta da un funzionario della Federcalcio. Un congedo che procura tanta amarezza, soprattutto per tutto quello che Valcareggi ha saputo dare per la causa azzurra. Ma il calcio rimane una ragione della sua vita e così decide di trascorreew serenamente gli ultimi anni della sua vita (è morto il 2 novembre 2005) con l’incarico di dirigente della grande e affollata scuola calcio “Settignanese”, nei pressi di Coverciano.

Il ricordo dell’erede e amico Enzo Bearzot

«Io sono del 1927, lui del 1919, e quindi ci separavano otto anni, ma soprattutto lui è stato il c.t. della Nazionale prima di me. E a quei tempi lo staff era composto anche dal c.t. della Under 23. Così io che ero il responsabile di quella squadra, stavo anche con la Nazionale maggiore. Siamo stati insieme dal 1969 al 1974, e sono stati cinque anni bellissimi per il rapporto che abbiamo avuto. A volte mi arrabbiavo con lui, perché mi sembrava troppo buono, anche se io l’ho sempre apprezzato proprio per la sua signorilità, oltre che per la sua competenza. Sembrava che non reagisse alle critiche, ma in realtà le assorbiva piano piano alla sua maniera. E anche in questo senso mi ha insegnato qualcosa, perché mi ha fatto capire come si può controllare lo stress, anche se alla fine da questo punto di vista siamo rimasti sempre diversi. Io sono friulano e ho continuato ad arrabbiarmi, mentre lui da buon triestino aveva una calma straordinaria forse perché davanti a sé vedeva sempre il mare. Ferruccio era straordinario anche perché gli piaceva scherzare, e così quando mi vedeva mi sfotteva e mi diceva: “Eccolo qua il campione del mondo”. Ma in pubblico non accettava che si mettesse in discussione il suo lavoro, perché Ferruccio aveva creato un bel gruppo, dal quale anch’io ho ereditato qualcosa, avendo capito l’importanza dell’armonia interna. In fondo ho imparato da lui a difendere i giocatori, a costo di fare battaglie con la stampa. E poi ho anche cercato di imitare la sua filosofia di accettare i risultati senza far drammi»


Intervista di Massimo Del Moro
Il Tirreno, 6 giugno 2002

«Italia-Germania 4-3? Ho visto di meglio…»

Ferruccio Valcareggi, ovvero quando la saggezza batte anche la leggenda

LIVORNO. Ferruccio Valcareggi: 83 primavere, un triestino che da sessant’anni vive a Firenze. E stato il commissario tecnico delle spedizioni azzurre a Messico 1970 – con l’epico 4-3 rifilato ai tedeschi in semifinale – e Germania 1974, vice di Fabbri a Inghilterra 1966. Campione d’Europa nel 1968, dalla panchina ha diretto fior di fuoriclasse, come Riva, Rivera, Mazzola, Boninsegna, Facchetti, Burgnich.

Chi è stato il più bravo di quella nidiata di star nata negli anni Quaranta?
«Beh, erano tutti fortissimi, ma meglio di loro erano Meazza, Ferrari, Piola, i campioni degli anni Trenta. Piola era un atleta formidabile, goleador implacabile, bravissimo nelle rovesciate. Una volta, durante un incontro tra Lazio e Triestina, proprio con una rovesciata mi spaccò il labbro».

Torniamo ai Mondiali. Che Italia sbarcò in Messico?
«Era una squadra forte, consapevole delle proprie capacità. Venivamo dalla vittoria nel campionato europeo del 1968, con la finale ripetuta due volte contro la Jugoslavia: 1-1 la prima partita, 2-0 la seconda, con gol di Anastasi e Riva. Ci sentivamo competitivi e devo dire che si era convinti di disputare un buon Mondiale».

Lei poteva contare su giocatori di livello assoluto, quale Riva, Rivera, Mazzola, Boninesegna.
«Ancora oggi non mi piace parlare dei singoli. E più importante parlare del gruppo e degli equilibri in campo. La Nazionale che giocò in Messico era formata da tanti amici, da gente come Domenghini, Bertini e De Sisti, capace di sacrificarsi in nome della squadra, di ripiegare per proteggere Rivera che non amava rientrare. E quanto a Riva e Boninsegna, se segnavano molti gol, il merito era anche dei passaggi di Mazzola, De Sisti, Rivera».

Un’incognita era rappresentata dall’altura. Si giocava a più di duemila metri di altitudine: come affrontaste questo problema?
«Era la prima volta che un Mondiale veniva giocato in altura. Cercavamo di tenere un ritmo più basso, di evitare gli scatti ripetuti. In quelle condizioni erano favorite le squadre più tecniche».

E infatti vinse il Brasile di Pelé, battendo gli azzurri per 4-1: non c’era niente da fare?
«Era un grande Brasile. Qualche anno dopo quella finale mi ritrovai in Svizzera con Carlos Alberto, il capitano di quello squadrone. Mi disse che loro erano troppo più forti degli altri, che quel Brasile valeva quello del 1958, che schierava, tra gli altri, Garrincha, Pelé, Didì, Vavà. Non vi dimenticate che la linea d’attacco del 1970 era formata da Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé e Rivelino. Tanti campioni e in più Pelé. Carlos Alberto mi disse: «Noi avevamo Pelé e voi no».

Il gol che realizzò in finale, saltando sopra Burgnich è entrato nella storia di questo sport.
«Sì, fu un gol bellissimo, sintesi di potenza e tempismo. Pelé saltò un attimo prima, riuscì a rimanere in sospensione e a colpire la palla di fronte. E tenete presente che era alto 1.70, non era un gigante, eppure arrivava a colpire altissimo».

Approdammo un po cotti a quella finale, dopo l’entusiasmante 4-3 alla Germania: col senno di poi, non sarebbe stato il caso di cambiare pelle alla squadra, di effettuare 4-5 sostituzioni, come lei aveva già fatto nel 1968, prima della finale bis con la Jugoslavia, di far entrare subito Rivera, invece di farlo giocare solo sette minuti?
«Forze fresche? Forse ci avrebbero fatto comodo, ma è difficile ammettere di aver sbagliato, anche perché bisogna essere lì, vedere e parlare tutti i giorni con i calciatori, valutarne l’impegno in allenamento e la capacità di soffrire e rendere. Tutti vogliono giocare una finale mondiale. Nessuno si sognerebbe di togliere Pelé o Maradona, ma vi assicuro che era difficile rinunciare a Mazzola, a Domenghini, a Riva. Noi, comunque, siamo arrivati in fondo, a un passo dal grande traguardo. Fu bravo Bearzot a tagliare quel traguardo nel 1982. Noi siamo arrivati secondi, fu la conferma della vittoria europea del 1968, perché a batterci fu solo un immenso Brasile».

Prima della finale c’era stato il 4-3 con la Germania di Beckenbauer, Muller e Overath. Una partita simbolo, canovaccio di film e libri. Che ricordi si porta addosso di quelle due ore e passa di thrilling?
«Fu una partita ad altissima tensione emotiva, ma forse sopravvalutata nel tempo per l’alternanza di gol ed emozioni. Pensa, allo stadio Atzeca di Città del Messico hanno messo una lapide per ricordare quell’incontro. Per me, invece, dal punto di vista tecnico non fu un incontro eccezionale. Non giocammo bene, eppure quell’incontro è rimasto impresso nelle menti degli appassionati. Le mie Nazionali hanno giocato partite di livello superiore».

Qualche esempio?
«Le due partite più belle della mie gestione sono state la seconda finale europea con la Jugoslavia e l’1-0 con l’Inghilterra nel novembre 1973: vincemmo con un gol di Capello, era la prima volta che la Nazionale batteva gli inglesi a casa loro».

Quell’exploit in Inghilterra, il bel gioco nel girone eliminatorio ci proiettarono da favoriti verso il Mondiale 1974: purtroppo finì male, per quali motivi?
«Finimmo a casa subito. Pareggiammo con l’Argentina, vincemmo con Haiti e poi ci battè nettamente la Polonia. Non avevamo un gruppo unito, ma un insieme di ottimi giocatori, qualcuno però in fase calante. Pesò molto il contorno, la dirigenza, non fummo sostenuti e protetti adeguatamente. I Mondiali si vincono anche fuori dal campo».

La Germania conquistò il titolo, ma quelli furono i mondiali dell’Olanda, del calcio totale. A lei piacevano gli arancioni?
«Certo che mi piacevano. Giocavano un calcio moderno, dove i calciatori sapevano interpretare più ruoli con intelligenza e acume tattico. Schieravano una sola punta di ruolo, eppure riuscivano ad attaccare con folate impressionanti, grazie a campioni come Cruijff, Neeskens, Rensenbrink, Van Hanegem, alla spinta di terzini incredibili come Krol e Suurbier. Una supersquadra, troppo convinta però dei propri mezzi, troppo sicura. Perse in finale, ma non dimentichiamoci che i tedeschi campioni del mondo potevano contare su gente come Beckenbauer, Vogts, Bonhof, Muller, Heinckes, Honess, Breitner».

E vero che lei non leggeva mai i giornali quando era commissario tecnico per non farsi influenzare?
«Diramavo le convocazioni il lunedì e poi dal martedì non leggevo più un quotidiano. Azeglio Vicini a volte veniva da me e mi diceva: «Hai letto questo, hai visto quest’altro?». Io gli rispondevo di non preoccuparsi, che non dovevamo stare dietro alle mille voci o ai mille consigli. Noi dovevamo fare delle scelte ed essere coerenti».