Bojan Krkić e l’insostenibile peso delle aspettative

Quattrocentoventitre gol nelle giovanili del Barcellona. Il nuovo Messi, dicevano. Ma dietro il talento si nascondeva un segreto: l’ansia lo stava distruggendo.

Bojan Krkić Pérez è nato il 28 agosto 1990 a Linyola, un piccolo comune nella provincia di Lleida, in Catalogna. Oggi è dirigente sportivo del Barcellona, dove ricopre il ruolo di responsabile dei giocatori in prestito e vice direttore sportivo, ma la sua storia è quella di un ex calciatore che ha vissuto sulla propria pelle il peso schiacciante delle aspettative.

Figlio dell’ex calciatore serbo Bojan Krkić, che aveva militato nel Mollerussa nella stagione 1988-1989, e di Maria Lluïsa Pérez, Bojan è cresciuto respirando calcio fin da bambino. Il destino sembrava avergli tracciato una strada chiara: seguire le orme paterne, ma superarle di gran lunga. E per un periodo, tutto sembrava andare esattamente in quella direzione.

Il predestinato

A diciassette anni e cinquantuno giorni, Bojan Krkić divenne il più giovane marcatore nella storia del Barcellona. Era il 2007, e quel ragazzo di Linyola aveva appena infranto tutti i record delle giovanili blaugrana: 423 gol con le squadre giovanili del club catalano. I numeri erano impressionanti, quasi irreali. E c’era un nome che risuonava ogni volta che si parlava di lui: “il nuovo Lionel Messi”.

Ma Bojan non voleva essere il nuovo nessuno. Voleva semplicemente essere se stesso, giocare a calcio, fare ciò che amava. Invece, a un’età in cui la maggior parte dei ragazzi pensa agli esami di scuola e alle prime uscite con gli amici, lui si ritrovò catapultato in un vortice di aspettative impossibili da soddisfare.

La sua prima stagione con il Barça fu straordinaria: 48 presenze, 12 gol. I numeri parlavano chiaro, il talento c’era. La Spagna lo convocò per l’Europeo del 2008 in Austria e Svizzera. Tutto sembrava andare per il verso giusto, la favola del predestinato stava prendendo forma.

E poi, all’improvviso, Bojan disse di no.

Il segreto

“La Spagna convoca Bojan e Bojan dice no”. Questo fu il titolo che cambiò tutto. In Spagna, la narrativa si rovesciò immediatamente. Come poteva un ragazzo di diciassette anni rifiutare la nazionale? Molti pensarono che avesse preferito andare in vacanza. Altri lo accusarono di non avere la giusta mentalità, di non essere abbastanza motivato.

La verità, però, era molto diversa. Una verità che Bojan ha tenuto nascosta per un decennio intero, fino a un’intervista del 2018 con il Guardian. “Non sono andato all’Europeo a causa di problemi d’ansia, ma abbiamo detto che stavo andando in vacanza”, avrebbe rivelato anni dopo.

Gli attacchi d’ansia avevano iniziato a manifestarsi nel febbraio del 2008. Prima della partita contro la Francia, quella che sarebbe dovuta essere la sua prima presenza con la nazionale maggiore, Bojan si sentì sopraffatto. “C’era una pressione qui, potente, che non andava mai via”, avrebbe raccontato, indicando la testa. “Ero a posto quando sono entrato nello spogliatoio per la partita contro la Francia, ma ho iniziato a sentire questa potente vertigine, mi sono sentito sopraffatto, in preda al panico, e mi hanno steso sul lettino del fisioterapista”.

Non fu un episodio isolato. Le vertigini, la nausea, la sensazione di malessere divennero costanti, 24 ore al giorno. Servivano medicine, trattamento psicologico per superare le barriere che si era eretto, la paura che lo attanagliava.

La solitudine

Tutti alla federazione sapevano: Luis Aragonés, il ct della Spagna, e Fernando Hierro, il direttore sportivo. Hierro mandava messaggi a Bojan ogni settimana per chiedergli come stava. Il giorno prima dell’annuncio della lista definitiva, lo chiamarono. “Bojan, ti convocheremo”. Era in macchina, andando all’allenamento. La sua risposta fu dolorosa: “Mi fa male dirlo, ma non posso”.

Arrivato al Camp Nou, trovò Carles Puyol ad aspettarlo. Il capitano gli disse: “Bojan, sarò al tuo fianco per tutto il tempo, ci sarò per te”. Ma Bojan dovette ripetere ancora: “Puyi, non posso”. Era sotto farmaci, era sull’orlo del baratro.

Il giorno dopo, i titoli devastanti della stampa spagnola. Come potevano convocarlo quando avevano parlato con lui il giorno prima, quando conoscevano la sua situazione? “Mi sono sentito molto solo”, avrebbe ammesso Bojan. “Ci sono ancora persone che mi chiedono: ‘Perché non sei andato?'”

A Murcia, la gente lo insultava per strada. Non sapevano, pensavano semplicemente che non volesse giocare. Quella fu una delle esperienze più dure, anche se a quel punto a Bojan non importava davvero cosa dicesse la gente. Ciò che faceva male era che quei titoli fossero presumibilmente arrivati dalla Federazione stessa.

Il coraggio di andarsene

“Sarebbe stato facile restare al Barcellona e non giocare, ma dovevo andare”, avrebbe detto Bojan anni dopo. Nel 2011, a ventuno anni, lasciò il Barça. Iniziò un peregrinare che lo portò in Italia, alla Roma e al Milan, poi in Olanda all’Ajax, prima di tornare brevemente al Barcellona nel 2013 per essere immediatamente prestato.

Ma il Barcellona condizionava tutto. I dirigenti non valutavano ciò che faceva realmente. C’era sempre questa frase ricorrente: “Vediamo se Bojan torna al suo livello migliore”. Ma qual era il livello migliore? Ogni stagione aveva raggiunto quel livello, a volte in modo più consistente, a volte meno, ma aveva sempre gareggiato bene.

Grandi club, storia ovunque, ma tutti si aspettavano il Bojan che era stato promesso, non il Bojan che stava di fronte a loro in quel momento.

La rinascita a Stoke

Nel 2014, Bojan fece una scelta che molti dei suoi amici e colleghi definirono folle: si trasferì allo Stoke City per 1,8 milioni di euro. Una squadra di provincia inglese, lontana dai riflettori dei grandi club europei. Ma fu lì che Bojan trovò finalmente un posto dove poter respirare, crescere, essere se stesso.

“Ho sentito che era il club giusto”, avrebbe raccontato. “E abbiamo avuto stagioni fantastiche. Il club si è piazzato tre volte nella top 10 della Premier League. Abbiamo giocato un calcio fantastico e i tifosi mi adoravano. È stato uno dei momenti migliori di tutta la mia carriera”.

In Inghilterra, Bojan scoprì qualcosa che aveva perso: l’essenza del calcio. “C’è una frase: ‘Calcio, quanto eri bello’… quando non c’erano i social media, quando era solo calcio”, disse. “E questa è la sensazione che ho avuto in Inghilterra: l’odore, l’essenza”.

Giocò 85 partite per lo Stoke, segnando 16 gol. Forse non erano i numeri di un campione, ma i tifosi lo amavano comunque. Ryan Shawcross, il suo capitano, avrebbe detto: “Allo Stoke City sarai ricordato come un eroe dai tifosi. Amavano il modo in cui giocava, il suo carattere e quanto era fantastico come giocatore”.

Il prezzo della sensibilità

“Alcune persone mi hanno detto che se fossi stato più figlio di puttana, un bastardo… E più in alto arrivi, più devi esserlo. Ma io dico: ‘Non posso’. E quando ho provato a interpretare un ruolo più cattivo in campo, l’ho perso completamente”.

Questa confessione di Bojan rivela molto sul perché il calcio moderno possa essere così spietato con chi è sensibile, con chi ha sentimenti profondi. I calciatori sono molto giovani ed esposti. Anche nelle categorie under-15, i giocatori ricevono già insulti sui social.

Sono forze potenti che non puoi controllare, opinioni che non puoi fermare, in una società dove predomina l’invidia e tutti hanno accesso alla tua vita privata. “Devi fare in modo che non ti colpisca, ma non è sempre facile”, ammise Bojan. “Quelli di noi che hanno sentimenti, che sono sensibili, che possono essere colpiti, hanno bisogno di un buon scudo”.

A 32 anni, nel 2022, Bojan Krkić ha appeso le scarpe al chiodo. La sua carriera lo aveva portato anche al Mainz in Germania, al Montreal Impact in Canada e al Vissel Kobe in Giappone. Ha vinto quattro titoli di campionato, due Champions League, una Coppa del Mondo per Club. Ha giocato con alcuni dei migliori calciatori di una generazione.

Bojan è orgoglioso della sua carriera, di ciò che ha vissuto. E ha una consapevolezza importante: “La cosa più importante non sono i trofei, sono le esperienze, ciò che hai vissuto, ciò che hai qui nel cuore, ciò che sai, ciò che vivi. Nessuno potrà mai rubartelo”.

Una lezione per tutti

La storia di Bojan Krkić è un monito potente. I calciatori non sono macchine, non sono statue senz’anima. Sono persone, con fragilità e sensibilità. La cultura della mascolinità tossica nel calcio, l’idea che mostrare debolezza possa danneggiare la carriera o la reputazione, deve cambiare.

I social media hanno reso tutto più difficile. Ciò che una volta era confinato ai titoli dei giornali e ai fischi allo stadio ora è amplificato esponenzialmente e può raggiungere i giocatori 24 ore su 24, sette giorni su sette.

Bojan non meritava di sentirsi male per non aver soddisfatto gli standard irraggiungibili che altri avevano stabilito per lui. Quando lo ricordiamo, non dovremmo vederlo come il primo a cadere costretto a reggere il peso dell’ombra di Messi, ma come un giocatore che è riuscito a farcela ovunque, che sia a Stoke, Barcellona, Roma, Milano, Mainz, Montreal o Kobe.

Un giocatore che, nonostante tutto, non ha mai smesso di amare il calcio. E che oggi, tornato al Barcellona come dirigente, può finalmente aiutare altri giovani talenti a non vivere lo stesso inferno che lui stesso ha attraversato.