L’invasione dei petrodollari ha trasformato il calcio in uno strumento geopolitico. Come i fondi sovrani arabi stanno conquistando il potere attraverso il pallone.
“L’energia non si crea né si distrugge, si trasforma”. Questa legge fisica, apparentemente lontana dai rettangoli di gioco, nasconde una verità scomoda che attraversa il mondo del calcio contemporaneo. Come l’energia, anche il pallone ha subito una metamorfosi che lo ha trasformato da semplice sport in strumento di potere geopolitico.
La storia ci insegna che quando qualcosa diventa strategico, diventa anche pericoloso. E il calcio, oggi, è diventato molto più strategico di quanto i tifosi vogliano ammettere.
La crisi del 1973
Per comprendere cosa sta accadendo al calcio, dobbiamo tornare al 16 ottobre 1973. Quel giorno, durante la Guerra del Yom Kippur, l’OPEC decise di fermare le esportazioni di petrolio verso l’Occidente. Non fu solo un embargo: fu il momento in cui il mondo si accorse che la sua fonte di energia principale era nelle mani di altri.
Fino ad allora, l’energia era considerata infinita e innocua. I paesi occidentali costruivano le loro economie sul presupposto che gas e petrolio sarebbero sempre stati disponibili, a prezzi ragionevoli, da fornitori compiacenti. Quei “re esotici” del Golfo Persico sembravano interessati solo ai loro palazzi dorati e alle loro auto di lusso.
Ma quella generazione di emiri e sovrani è cresciuta. E con loro è cresciuta la consapevolezza che l’energia non è solo business: è potere. Potere economico, politico, strategico. Il controllo delle risorse energetiche è diventato il controllo del destino delle nazioni.
Il pallone rotola verso Oriente

Il calcio ha seguito una traiettoria sorprendentemente simile. Nato in Inghilterra, si è espanso in Europa creando un ecosistema complesso: UEFA, FIFA, Premier League, Serie A, La Liga. All’inizio era affascinante vedere tifosi di paesi lontani indossare le maglie dei grandi club europei, alzarsi nel cuore della notte per seguire una finale di Champions League.
I dirigenti del calcio occidentale hanno visto in questi mercati emergenti un’opportunità d’oro. Nuovi sponsor, nuovi diritti televisivi, nuovi consumatori affamati di calcio europeo. Era un’espansione che sembrava naturale, quasi inevitabile.
Ma come nel caso dell’energia, qualcosa è cambiato. Quei paesi che inizialmente erano solo consumatori di calcio europeo hanno iniziato a voler essere protagonisti. Non bastava più comprare le maglie: volevano comprare i club. E avevano i mezzi per farlo.
Quando i Petrodollari incontrano il pallone
Il denaro proveniente da fondi sovrani arabi ha iniziato a fluire nel calcio europeo con una precisione chirurgica. Non investimenti casuali, ma acquisizioni strategiche. Manchester City, PSG, Newcastle: non sono solo club di calcio, sono teste di ponte in un territorio che fino a ieri era dominio esclusivo dell’Occidente.
Quello che molti tifosi non comprendono è che dietro queste acquisizioni non ci sono semplici imprenditori appassionati di calcio. Ci sono stati, governi, strategie geopolitiche a lungo termine. Il calcio è diventato uno strumento di soft power, un modo per influenzare opinioni, plasmare narrative, costruire consenso.
Controllare un grande club significa avere accesso a istituzioni politiche, ai media, alle masse. Significa poter organizzare eventi globali dove il proprio paese fa bella figura, indipendentemente da quello che accade fuori dagli stadi. È sportswashing nella sua forma più raffinata.
I segnali che ignoriamo

Come negli anni ’70 con l’energia, ci sono segnali che preferiamo non vedere. Mondiali organizzati in paesi dove i diritti umani sono un optional. Infrastrutture costruite con il sangue di lavoratori migranti. Stelle del calcio che diventano ambasciatori di regimi autoritari in cambio di contratti milionari.
E poi c’è l’escalation economica. Quando fondi sovrani con risorse praticamente infinite entrano nel mercato, i prezzi perdono ogni logica. Un giocatore non vale più quello che produce sul campo, ma quello che rappresenta in termini di immagine e influenza. È una corsa al rialzo insostenibile per chi non ha accesso a pozzi di petrolio.
Il risultato è una distorsione del mercato che ricorda pericolosamente quella energetica: chi controlla le risorse detta le regole, e gli altri si adeguano o vengono tagliati fuori.
La resistenza del calcio sostenibile
Paradossalmente, questa invasione di capitali esterni ha dato nuovo valore a club che prima erano criticati per il loro potere. Real Madrid, Bayern Monaco, Arsenal (almeno in parte): improvvisamente, la loro struttura tradizionale, basata su risultati sportivi e sostegno popolare, appare come un baluardo di autenticità.
È ironico: club che ieri erano accusati di essere troppo potenti, oggi rappresentano un modello di sostenibilità rispetto a progetti costruiti su ricchezze estratte dal sottosuolo di paesi a migliaia di chilometri di distanza.
Questi club dimostrano che si può essere competitivi senza vendere l’anima, che si può vincere senza tradire i propri valori. È un calcio che cresce organicamente, che investe sui giovani, che ha una connessione autentica con il territorio e i tifosi.

La transizione necessaria
Come per l’energia, è tempo di una transizione. Non possiamo continuare a fingere che il calcio sia solo sport quando è diventato uno strumento geopolitico. Non possiamo accettare che i nostri club, i nostri campionati, le nostre competizioni siano ostaggio di strategie che nulla hanno a che fare con il calcio.
La transizione energetica punta su fonti rinnovabili: sole, vento, acqua. Nel calcio, le fonti “rinnovabili” sono i tifosi, i territori, le tradizioni, i settori giovanili. Sono risorse che si rigenerano, che crescono, che non si esauriscono.
Significa privilegiare la proprietà diffusa rispetto a quella concentrata. Significa sostenere il calcio che nasce dal basso anziché quello che cala dall’alto. Significa scegliere la sostenibilità economica invece dell’insostenibilità finanziaria.
Il calcio può ancora salvarsi, ma servono coraggio e visione. Servono regole che impediscano la concentrazione eccessiva di potere nelle mani di pochi. Servono istituzioni che antepongano l’interesse dello sport a quello economico. Servono tifosi consapevoli che il calcio vale più del successo a tutti i costi.
L’energia ci ha insegnato che la dipendenza da fonti esterne è pericolosa. Il calcio può imparare questa lezione prima che sia troppo tardi. Può scegliere l’indipendenza, la sostenibilità, l’autenticità.
Perché, alla fine, l’energia si trasforma. E anche il calcio può trasformarsi. Ma spetta a noi decidere in che direzione.