Darwin Pastorin: La dolce poesia del calcio

Forza, recuperiamo i nostri prati di ieri e di oggi, e se possibile anche di domani. Riprendiamo il racconto della nostra vita «dal verde del prato e dall’azzurro del cielo

NOSTALGIA DELL’ALA DESTRA

L’ala destra era un ribelle, un sognatore e un fuggitivo. Aveva la maglia numero sette sulle spalle fragili, portava i capelli lunghi o arruffati e i calzettoni abbassati, i suoi dribbling erano arte pura, elogio della malinconia, allegria e follia. Ala destra era Mané Garrincha, che parlava ai passerotti e rinunciò a una villa a Copacabana preferendo la libertà di un uccellino in gabbia, morì solo e abbandonato per poi conoscere i versi di Carlos Drummond de Andrade e Vinicius de Moraes, per i poveri è lui il re e non Pelé, l’ex lustrascarpe che oggi porta in giro il suo poster fin troppo sorridente. Ali destre come Pier Paolo Pasolini («Giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco») e Antonio Tabucchi («Il mio calciatore preferito era Kurt Hamrin»). O come Franco Causio, detto «Brasil», per il suo estro sudamericano, e Claudio Sala, detto «il poeta», perché erano versi sciolti le sue fughe sulla fascia. Oggi l’ala destra è memoria e rimpianto, sostituita dagli «esterni», che niente esprimono: se non una esigenza tattica, un puntino sulla lavagna. Ma io sono qui, colpito da profonda nostalgia, a ricordare, a rendere omaggio a Roccotelli e Fotia, Favalli e Jair, Cané e Montorsi, ai grandi e ai piccoli, ai celebrati e ai dimenticati. Le ali volavano nella nostra fantasia e nella nostra speranze, nelle domeniche pomeriggio, su quegli spalti che sapevano di avventura e di futuro: e a ogni loro volata l’immaginazione saliva al potere. L’ala destra era un rivoluzionario, l’espressione di una libertà estrema, di un’utopia da realizzare. Perché «i dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di Garrincha è un momento eterno. Non lo dimentica nessuno», sottolineò Edilberto Coutinho nel suo “Maracanà, addio”, testamento di un’epoca epica e abbagliante.

GENTILE MA “BUGIARDO”…

Non potrò mai dimenticare il mio primo mondiale da inviato: 1982, in Spagna, la Coppa del nostro delirio collettivo, di una vittoria inattesa dopo polemiche, nuvole d’ira, silenzio-stampa. L’Italia di Bearzot che, al “Santiago Bernabeu”, l’11 luglio 1982, supera la Germania Occidentale per 3-1: resteranno per sempre la gioia di Sandro Pertini, l’urlo di Tardelli, le mani di Zoff,rese immortali da Guttuso, che alzano la Coppa, il viso mai troppo felice di Scirea. Una nazione scese in piazza, ritrovando un ‘identità nazionale, una felicità collettiva, fu un naufragio di lacrime, bandiere, risate. Diventammo tutti, noi italiani, per anni, “paolorossi”: perché Paolo Rossi non fu soltanto il bomber, conseireti, di quelmundial, ma anche il simbolo vincente di un Paese, la sua icona, il suo poster itinerante.Ricordo l’abbraccio di Claudio Gentile, il mastino che fermò prima Maradona e poi Zico, mentre saliva la scalinata che lo avrebbe portato, con gli altri eroi, dal re Juan Carlos. Mi disse: «Giurami che è tutto vero». Nando Martellini scandì per tre volte «campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!». Il calcio conobbe il suo apogeo, il suo ritorno al sogno fanciullo, la sua allegria. Raccontarono quell ‘impresa Giovanni Arpino, Mario Soldati, Gianni Brera e Oreste del Buono. E Pelé nominò il folletto Bruno Conti «miglior calciatore della manifestazione». La svolta del mundial avvenne il 5 luglio, al “Sarrià” di Barcellona. L Italia affrontava il favorito e bellissimo Brasile di Junior e Toninho Cerezo, di Socrates e Zico, di Falcao ed Eder. Alla Selecao bastava un pareggio per raggiungere la semifinale. Bearzot confermò il pallido Rossi, senza gol e sottoposto agli sberleffi della critica. Prima della partita, incontrai Gentile, che – per amicizia – interruppe il silenzio-stampa. Gli chiesi: «Chi marcherai?» «Eder, l’ala sinistra. Oriali si occuperà di Zico». Cominciò la corrida, con Gentile su Zico. Paolo Rossi segnò tre reti, Socrates e Falcao le inutili due peri brasiliani. Telé Santana, l’allenatore dei verdeoro, sospirò: «A vincere è stato il destino». Fermai Gentile: «Perché mi hai raccontato una bugia?». Sorrise: «Nessuna bugia. Prima di scendere in campo, Bearzot ci richiamò negli spogliatoi. Ho cambiato idea, Claudio: occupati di Zico, non mollarlo mai. E così ho fatto». 2-0 alla Polonia (doppietta di Rossi), 3-1 alla Germania Occidentale (rigore fallito da Cabrini, Paolo Rossi, Tardelli, Altobelli, Breitner) e l’Italia diventò regina.

QUELLO POESIA DEL NUMERO UNO

È appena uscito in libreria “Linea Bianca”, trimestrale di scienza e cultura calcistica, diretto da Mario Sconcerti ed edito dalla Limina di quello straordinario personaggio di Enrico Mattesini, il primo ad aver messo insieme sport e letteratura, ad aver fatto giocare nella stessa squadra del cuore e della nostalgia Meroni e Pasolini, Garrincha e Amado, Re Cecconi e Arpino. Il trimestrale, curato da Tommasso Pellizzari, interista in crisi, è dedicato, soprattutto, ai portieri. Gianni Mura racconta Boranga, Luigi Garlando il dialogo tra Buffon e un casellante, Lorenzo Buffon è affidato alla penna di Cesare Fiumi. Sono belle pagine, belle letture. Per gli estremi difensori, io, antico centravanti, titolare della rappresentativa liceale, per qualche tempo nella Nazionale Scrittori “Osvaldo Soriano”, ho sempre avuto un debole. Un ruolo poetico, e non solo per il “portiere caduto alla difesa” di Umberto Saba o per il portiere assassino di Peter Handke. L’avventura del calcio cominciava sempre da lui, dal numero uno, freddo o bizzarro, matto o prevedibile. L’eleganza di Giuliano Sarti, la bravurata atavica di Dino Zoff, i voli di Anzolin, i miracoli di Battara, la figurina per antonomasia Piazzaballa. Ma ancora di più amavo il dodicesimo, quello che non giocava (quasi) mai, come Massimo Piloni, finito a teatro grazie all’attore Matteo Belli. E chissà che fine hanno fatto Fioravanti e Ferioli, che furono, addirittura, riserve della riserva. In Brasile, il mito era Gilmar, tra l’altro mio cugino mancato, ma spopolava Manga del Santos. I portieri sono forti e fragili, non conoscono vie di mezzo. Mai banali, sono artisti fuori e dentro il campo. Giuliano Terraneo, quand’era al Torino, scriveva poesie, Tacconi e Zenga si sono provati in televisione, su un’isola o come postini, Joao Leite, nazionale brasiliano negli Anni 80, sotto la firma scriveva “Gesù vi ama”. In porta, giocavano Camus, Nabokov e Evtusenko. Il portiere sapeva scherzare, a volte senza sorridere.

NUMERI E DESTINI: IL DODICESIMO

I numeri sulle maglie, un tempo, illustravano un ruolo e raccontavano gli uomini. Il numero 7, nella sua solitudine, era un tipo stravagante, un artista sospeso tra sogno e realtà, Garrincha sapeva interpretare il canto degli usignoli, Gigi Meroni portava a spasso, sotto i portici antichi di Torino, una gallina al guinzaglio. Il numero 4 era il mediano di spinta, dallo sguardo severo e dalle gambe a ics, correva a testa bassa e non conosceva pietà. Il numero 10, elegante e fragile, possedeva una tecnica impeccabile, giocava guardando le stelle. Ma noi avevamo una passione particolare, struggente, commovente per lui. Sì, per lui: il numero 12, il portiere di riserva. Non giocava (quasi) mai, sulla panchina coltivava inutili speranze e aumentava di peso. Era un’ombra discreta e diligente. Lo potevi trovare in un angolino dell’album Panini e nella foto ufficiale. Durante la stagione, no. Le luci della ribalta toccavano al titolare. Eppure, erano e sono figure mitiche. Di un calcio che è forte rimpianto, tenerezza. Giancarlo Alessandrelli disputò con la Juve, una sola partita.Ad un certo punto, Dino Zoff disse: va bene, diamo un contentino al ragazzo. I bianconeri, ultima di campionato, 13 maggio 1979, in casa contro l’Avellino, stanno vincendo 3-0. Gol di Roberto Bettega e doppietta di Vinicio Verza. Per Alessandrelli, dopo tanto attendere, è il momento che vale una vita professionale. Entra in campo con il cuore che gli batte forte. Così forte da non sentire nemmeno il boato dello stadio che accompagna il suo esordio. La porta gli sembra immensa, non come in allenamento, dove tutto sembra così naturale, così facile, così semplice. Tremano le gambe, tremano le mani. E gli irpini vanno a rete, tre volte. Pareggiano una partita che sembrava, ormai, segnata. 30′ gioca Alessandrelli, e subisce tre gol. Il dodicesimo a fine stagione lascia la Juventus per andare all’Atalanta, in B. Il suo posto viene preso da Luciano Bodini. E Luciano Bodini è entrato nella letteratura, grazie a un libro, molto bello, scritto con passione, di Nicola Calzaretta: «Secondo… me» (“Libri di Sport”). Mancava un’opera così, Calzaretta ha colmato un vuoto. Così come l’attore Matteo Belli (davvero straordinario, un erede di Dario Fo) portò in teatro le attese e le disavventure di Massimo Piloni, altro portiere che si è sacrificato sull’altare dell’immensa bravura di Zoff.

GLI ARBITRI, IL PALLONE, LA SOLITUDINE

Dalla parte degli arbitri, sempre e comunque. Non ho mai accettato la gogna, lo sberleffo, l’ironia, il sospetto nei confronti dei direttori di gara. Sono loro gli elementi più fragili del circo-calcio, per questo vanno difesi a priori. Ha scritto Eduardo Galeano: «A volte, rare volte, qualche decisione dell’arbitro coincide con la volontà del tifoso, ma neppure così riesce a provare la sua innocenza. Gli sconfitti perdono per colpa sua e i vincitori vincono malgrado lui. Alibi per tutti gli errori, spiegazione di tutte le disgrazie, i tifosi dovrebbero inventarlo se non esistesse. Quanto più lo odiano, tanto più hanno bisogno di lui. Per più di un secolo l’arbitro ha portato il lutto. Per chi? Per se stesso. E ora lo nasconde coi colori». Così, sono contrario alle moviole in campo. Al doppio arbitro e ai quattro guardalinee. Alla tecnologia che sostituisce il sentimento. Trovo conforto in uno dei nostri più grandi poeti, Maurizio Cucchi. Ha composto una splendida poesia, che si conclude così: «Ma l’occhio elettronico, l’occhio artificiale / non risolve il dubbio naturale… / Basta allora con moviole, sofismi / e urla belluine. / Sia proclamata la verità di fede: / l’infallibità dogmatica / dell’arbitro. Sia dichiarato infallibile / d’autorità, sia lui / il solo a possedere / l’unica, sportiva, perfetta verità». La letteratura ci ha raccontato la solitudine dell’ala destra (Acitelli), del centravanti (Soriano), del portiere (Nabokov). Ma è stato Collina, nella sua autobiografia pubblicata da Mondadori, e diventata un successo internazionale, a narrare le difficoltà, ma anche i sogni, la buona fede, i sacrifici dell’arbitro. Un uomo che vive di una passione infinita. Che ama il pallone e le sue alchimie, le sue magie, i suoi sortilegi. Consapevole di essere solo, un Don Chisciotte riveduto e corretto, ma felice d’esserlo: perché questo è il suo ruolo, questa è la sua missione. Un compito improbo, come sottolineò lo scrittore spagnolo Camilo José Cela, Premio Nobel per la Letteratura nel 1989: «Quando, fischiando un rigore, si corre l’evidente rischio di finire impiccati, l’arbitro deve astenersi dal fischiare il rigore, castigo che può essere sostituito da una punizione di prima o anche dal far finta di nulla, secondo le circostanze». Cela consigliò agli arbitri di seguire l’insegnamento di Voltaire: «Sono molto amante della verità, ma in nessun caso del martirio».

…E TARDELLI ENTRO’ DURO SU RIVERA

Juventus-Milan è una partita di ricordi, di emozioni, di scudetti e coppe, la vicenda del nostro calcio che diventa una storia culturale, politica e sociale. Fiat contro Mediaset, il segno indelebile di Giovanni Agnelli e le prese di posizione del presidente-allenatore Berlusconi, il tifo e di Togliatti e di Bertinotti. Sarà una partita vera, accesa, spettacolo garantito. Juventus-Milan, già. Ritrovo l’entrata di Tardelli su Gianni Rivera al fischio d’inizio, una rovesciata sudamericana e proletaria di Petruzzu Anastasi a Cudicini, nel giorno del debutto dello stopper Cattaneo, sei gol bianconeri ai rossoneri di Sacchi, i colpi di testa di Pierino Prati e di Roberto Bettega, le sgroppate araldiche di Maldera, gli errori di Calloni, lo sciagurato Egidio, e di Rush, il gallese triste, l’eleganza di Scirea e le fatiche di Lodetti e Bonini, il talento di Platini e la favola effimera di Tosetto, il Keegan della Brianza, lo strapotere di Rijkaard-Gullit-Van Basten, la forza titanica di Claudio Gentile, la mano alzata di Franco Baresi, le piroette di Causio detto “Brasil”, Piloni e Vecchi, Barluzzi e Tancredi, i colpi a sorpresa di Massaro e Pablito Rossi. Rivedo, con lacerante nostalgia, nella tribuna stampa del “Comunale”, i maestri Arpino, Brera e Caminiti, Pierin Dardanello con la sua fedele sigaretta, Piercesare Baretti con il suo volto ragazzo, Ferruccio Cavallero che se ne andò nel pieno di un sogno, Franco Colombo e la sua sottile ironia. Juventus-Milan è anche un valigia di dolore, di rimpianto.

LE ALI SPEZZATE DELLA FARFALLA MERONI

Ricordare Gigi Meroni, la farfalla granata. Ricordare un giocatore-poeta, un beatnik che girava, per il centro storico di Torino, con una gallina al guinzaglio. Ricordare un’ala destra che dribblava come un Garrincha, come un Best, che portava i capelli lunghi e si disegnava i vestiti, che sapeva dipingere, che s’innamorò perdutamente di Cristiana, la ragazza del luna-park. Alla mia trasmissione, “Sky Racconta”, commoventi sono state le testimonianze di Enrico Deaglio che, giovane studente di medicina e tifosissimo granata, vide arrivare il corpo del suo idolo all’ospedale Mauriziano di Torino, di Claudio Sala, che ereditò la maglia numero 7 di Gigi, e di Gianfranco Leoncini, che fu avversario del funambolo torinista in numerosi derby. Il poeta Maurizio Cucchi, per l’occasione, ha scritto una poesia “Undici versi per Gigi Meroni”: «Gigi granata la zazzera / e l’estro, la strada. / Che fosse lui, sul campo, l’ultimo / artista a rischio? / Lui, il nostro mago arioso, / l’artefice di genio ombroso / e intonatissimo, a giorni solare. / Chi ti ha falciato in area, / lieve discolo amato, danzatore garbato, / emblema in movimento, / caro e indifeso, di pieno Novecento?». Splendido il documentario di Umberto Nigri. Io ricordo tutto di quel 15 ottobre 1967. La notizia sconvolse Torino.Gigi Meroni venne investito da un’auto mentre attraversava corso Re Umberto con il compagno di squadra Fabrizio Poletti. A spezzare le ali della farfalla granata fu un giovane sostenitore del Toro, che delirava per Meroni: Attilio Romero, futuro presidente del club granata! Andai al funerale con il vicino di casa, Mario Lupano, altro torinista di fede e cuore. Pochi giorni dopo il derby. In un silenzio irreale, 4-0 per il Torino: tripletta di Combini e gol di Carelli. Ma nessuno fece festa. Nessuno aveva un sorriso: solo lacrime. Una pioggia di dolore per l’artista del pallone finito lassù, tra le nuvole e il cielo, a fianco di Valentino Mazzola e gli altri eroi di Superga.