Il tiro di Duda e la solitudine di Albertosi

Ottobre 1979. Un’incertezza del portiere determinò l’eliminazione del Milan contro il Porto nel primo turno di Coppa dei Campioni. Fu l’ultima partita internazionale del guardiapali di Pontremoli.

In ginocchio, incredulo e frastornato, lo sguardo quasi perso nel vuoto. Una delle ultime istantanee  della carriera di Ricky Albertosi. Era il 3 ottobre 1979, la sera di Milan-Porto, ritorno del primo turno di Coppa dei Campioni. Ad un mese dal suo quarantesimo compleanno, Ricky Albertosi sembrò un pugile al tappeto. Quella sua incertezza, su un tiro sembrato innocuo, contribuì in modo decisivo ad eliminare il Milan guidato da Massimo Giacomini.

Il ritorno dei rossoneri nell’Europa calcistica più prestigiosa, dopo dieci anni di assenza, ebbe la durata di un battito di ciglia. Il tiro decisivo lo scagliò un brasiliano originario di Maceiò: Josè Francisco Leandro Filho, per brevità chiamato Duda, classe 1947. Una mezzala trentaduenne, già apprezzata a Setubal in una squadra che schierava giocatori molto amati dalla tifoseria del Vitoria: Carlos Cardoso, Octàvio Machado, Matine, Josè Torres, Arcanjo e Jacinto Joao.

L’ingaggio di Duda da parte del Porto arrivò dopo una deludente parentesi spagnola del brasiliano con la maglia del Siviglia, conclusa con un anonimo undicesimo posto in classifica nel massimo campionato spagnolo. Due anni prima di eliminare il Milan, Duda si era messo in grande evidenza in una serata magica in Coppa delle Coppe, rifilando una tripletta al Manchester United di Dave Sexton, ex tecnico di Chelsea e Queens Park Rangers, giunto ai Red Devils al posto di Tommy Docherty, dimissionario dopo uno scandalo rosa con una fisioterapista della squadra. Duda, che aveva un’ottima intesa con il bomber Fernando Gomes, fu tra gli artefici del ritorno del Porto ai vertici del calcio lusitano. La sua specialità era il tiro da fermo dalla media distanza. Il brasiliano riusciva ad imprimere al pallone un effetto strano che causava un anomalo e repentino abbassamento della traiettoria. 

A San Siro, dopo un’ora di gioco, il pallone scagliato da Duda, apparentemente innocuo, diventò viscido come una saponetta. Albertosi si tuffò convinto di poterlo domare con facilità. L’inganno si materializza in un istante, come il cavallo di Troia dopo essere stato portato dentro le mura della città. Sfuggita dalle mani del portiere, la sfera rotolò mestamente in fondo alla porta, delineando la più atroce delle beffe e sancendo la grande impresa della squadra di Josè Maria Pedroto, l’allenatore che aveva condotto il Porto alla conquista del titolo nazionale, dopo diciannove anni di astinenza, grazie alla migliore differenza reti sul Benfica, centrando il bis un anno dopo, precedendo di un punto i rivali di Lisbona.

Il portiere milanista si girò con uno sguardo attonito, come Sandokan dopo essere stato sparato a tradimento dall’amico Koa durante l’abbordaggio della giunca cinese carica di soldati a largo delle Isole Romades. Sugli spalti scoppiò il finimondo. Capitan Bigon, che aveva ereditato la fascia da Rivera, rimase per alcuni secondi con le mani tra i capelli. La situazione era divenuta di colpo quasi disperata. I rossoneri cercarono di trovare subito il pareggio. In cattedra salì il portiere Fonseca, autore di un’ottima prestazione. L’estremo difensore fermò i tentativi di Antonelli, Galluzzo e Chiodi. Vinse il Porto e il Milan dovette bere l’amaro calice dell’eliminazione. A fine partita, Albertosi se la prese con il pallone, più leggero e diverso da quello ufficiale fornito dall’Adidas per le partite di campionato. 

Parecchi anni dopo, l’ex numero uno del diavolo rivelò l’aneddoto dei palloni più leggeri disponibili durante l’annata 1979/80 in seguito ad un accordo di Rivera con un fornitore. Palloni troppo leggeri e che, pertanto, vennero scartati. La sera del ritorno di Coppa, tuttavia, da Milanello portarono proprio quelli. Dopo la disfatta contro il Porto, il Milan utilizzò solo palloni Adidas.

Sono bastati un paio di bicchieri di Porto per far girare la testa perfino a nonno Albertosi, uno che di solito l’alcol lo regge niente male”, scrisse Alfeo Biagi sul Guerin Sportivo. Dopo il patatrac, il pubblico di San Siro schiumò ira, lanciando petardi verso l’area milanista. Su Ricky cadde la solitudine del numero uno, di chi sa di non poter sbagliare, consapevole che la scelta di quel ruolo equivale a muoversi perennemente in precario equilibrio su un filo a centinaia di metri d’altezza e senza protezioni.

Il portiere è un combattente solitario, l’Odisseo che sfida il canto delle sirene senza tappi di cera alle orecchie e senza farsi legare all’albero maestro. Un moderno Sisifo che rilancia in avanti la palla ben sapendo che la stessa tornerà minacciosa dalle sue parti, magari da direzioni inattese; il giocatore che prende il destino tra le mani e qualche volta se lo lascia sfuggire. Ad uscire da San Siro con la palma del protagonista fu Fonseca. Il dirimpettaio di Albertosi venne festeggiato dai giocatori ospiti come un eroe. A Ricky toccò, invece, lo scomodissimo ruolo di capro espiatorio della delusione rossonera

Nella gara di andata a Oporto, Albertosi fu decisivo nel salvare il risultato

Il pasticcio di quella sera cancellò, di colpo, gli interventi prodigiosi del portiere milanista nella partita d’andata, soprattutto la prodezza allo scadere, su sventola di Costa, con tanto di avvitamento all’indietro, togliendo la palla dalla rete con la mano di richiamo ed obbligando i portoghesi a ricacciare in gola l’urlo di gioia. Un’altra parata da antologia, l’ennesima, una delle ultime del numero uno con la maglia gialla di titolare del Milan. Tre giorni prima, il guardiapali rossonero aveva sciorinato un altro sontuoso intervento su un tiro di Ancelotti, scoccato da zero metri, in un RomaMilan d’inizio campionato conclusosi senza reti. Carletto, futura colonna del diavolo stratosferico di Arrigo Sacchi, battè a colpo sicuro trovando un portiere capace di fermare il pallone con uno scatto degno di un leopardo. Il romanista Pruzzo dovette abortire il gesto anticipato di esultanza mentre la smorfia di preoccupazione del rossonero Collovati virava in un sospiro di sollievo.   

Il periodo rossonero di Ricky Albertosi, cominciato dopo i Mondiali del ’74, quelli della disfatta della nazionale “Azzurro Tenebra” di Ferruccio Valcareggi, si concluse il 10 febbraio 1980, la domenica della sua ultima partita a difesa dei pali del Milan (la centosettantesima) contro il Perugia. Sfida risolta da un gol di Roberto Antonelli, talentuoso giocatore che Liedholm soprannominò, con uno dei suoi iperbolici accostamenti, “il Cruijff della Brianza”. Dopo quell’incontro, il tecnico rossonero Giacomini chiese al suo portiere di farsi da parte.

All’orizzonte già si addensavano le nubi dello scandalo del calcioscommesse che avrebbe scosso il football italiano il 23 marzo 1980, travolgendo anche il numero uno di origini toscane. In pochi mesi, Albertosi passò dalla copertina dell’Almanacco del Calcio edito dalla Panini, eletto a simbolo di longevità agonistica e classe del football italiano, al dimenticatoio dell’ingratitudine più tagliente, con estimatori transitati in un batter di ciglia nella folta schiera dei critici più spietati. Venne squalificato per non aver denunciato la combine in Milan-Lazio del gennaio ’80 (vittoria rossonera 2-1). Alcuni giocatori biancocelesti avrebbero giocato per perdere dietro compenso in denaro versato dal presidente rossonero Felice Colombo

“La mia storia iniziò con una telefonata di Bruno Giordano. Mi passò Massimo Cruciani. Mi disse che con 80 milioni di lire la vittoria contro la Lazio era assicurata. Io dissi che avrei riferito tutto al presidente Colombo che, però, rifiutò. Mi richiama Giordano e gli dissi di no. Silenzio per diversi giorni. Poi, sabato 5 gennaio, alla vigilia della partita, Colombo, Rivera e Vitali dicono che potevano arrivare a 20 milioni. Richiamo Giordano che mi diede l’ok. Tutta la squadra sapeva dell’accordo. Solo il tecnico Giacomini era all’oscuro. I soldi li consegnò Giorgio Morini che il lunedì scendeva a Roma. I contanti li ebbe da Colombo”.

In carcere, a Regina Coeli, dove rimase undici giorni, il portiere mangiò i migliori bucatini all’amatriciana, cucinati da un truffatore che stava nello stesso braccio. Nell’ora d’aria si teneva in forma con Bruno Giordano: il laziale tirava, Albertosi parava. 

La stagione 1979/80 fu la peggiore nella carriera del portiere, apertasi con la perfida conclusione di Duda e conclusasi anzitempo con il passaggio dell’uragano Totonero che trascinò in B anche il Milan. Il suo coinvolgimento nel calcio-scommesse gli impedì di giocare con Pelè e Chinaglia nei Cosmos di New York. Dovette accontentarsi di fare delle uscite nei campi di basket, riempiendo gli intervalli delle esibizioni dei mitici Harlem Globetrotters: Albertosi tra i pali e alcuni spettatori a calciare rigori, beccandosi un premio in caso di gol.

Carlo F. Chiesa lo ha definito “portiere dal fisico stratosferico, dal colpo d’occhio eccezionale, riflessi felini e con quella facilità d’inarcarsi in volo che conquistò subito tecnici e tifosi”. Gran colpo d’occhio, presa sicura, autorità e prestanza atletica: “un tipo alla Hiden con il fisico di Planicka”, come lo descrisse Il Calcio Illustrato. La vittoria mondiale degli azzurri di Bearzot in Spagna portò anche l’amnistia per gli squalificati post scandalo 80. Il portiere del decimo scudetto rossonero tornò in campo a difesa dei pali dell’Elpidiense, dispensando le sue ultime parate nei campi di provincia della serie C2. Ma questa è un’altra storia. 

  • Testo di Sergio Taccone, tra gli autori del libro del Collettivo Soriano “Ricky Albertosi. Romanzo popolare di un portiere” (a cura di Massimiliano Castellani, Urbone Publishing, 2019). Libro che si è aggiudicato nel 2020 il Premio Selezione Bancarella Sport.