JAIR – JENSEN – JEPPSON – JORDAN – JULINHO – JUNIOR – KROL
Il Milan, giudicandolo troppo “leggero” per il nostro campionato, lo scartò, lasciando via libera proprio ai cugini nerazzurri, che prontamente tesserarono il piccolo asso brasiliano. I primi mesi a Milano non furono però incoraggianti: come tanti suoi connazionali, Jair da Costa soffriva di ”saudade”, la nostalgia di casa dura a guarire. Superstizioso, il primo alloggio nelle vicinanze del cimitero aumentava la sua malinconia. Si chiudeva in camera, imposte abbassate, per ascoltare samba a tutto volume. Smentendo però tutti quelli che lo davano prematuramente per fallito, all’esordio in novembre andò subito a rete, suscitando entusiasmo per il suo gioco tutto scatti irrefrenabili, dribbling e tiri in porta. Da quel momento in poi diventò titolare inamovibile, incarnando uno dei tasselli preziosi del mosaico di Helenio Herrera: squadra chiusa in difesa, pronta a lanciare il contropiede per i “veltri” Jair e Mazzola. Dotato di un’ottima tecnica, veloce e imprevedibile, il suo scatto bruciante tranciava le difese e gli valse il soprannome di “Giaguaro”, il suo tiro in porta era un graffio poderoso e preciso. Difettava soltanto nel colpo di testa, choccato dal ricordo giovanile di un compagno di squadra entrato in coma a causa di uno scontro aereo con un avversario durante una partita. Fu protagonista di tutti i trionfi della Grande Inter dove giocò per 10 anni tranne l’intermezzo del torneo 1967/68 con la Roma.
Alto, longilineo, era uno dei sei figli di Francisco, negoziante di San Paolo. Cresciuto nella Juvenil Palmeiras, era passato al club del Sindacato tessili e poi alla Juventus di San Paolo, prima di esplodere nel Portuguesa, dove da interno era diventato ala destra e aveva conquistato la Nazionale, giocando (tre partite e due gol) lo sfortunato Mondiale 1954. Contattato subito dall’Inter, aveva rifiutato, essendogli appena nato il primo figlio. L’anno dopo accettò invece la Fiorentina: «Un’ala» sentenziò il suo tecnico, Bernardini «può arrivare fino a Julinho. Non oltre».
Timido e taciturno, in campo è inarrestabile. Conquista lo scudetto, poi, scaduto il biennale, torna in patria.
Dopo una lunga trattativa torna in viola, ma nel 1958, irremovibile, se ne va al Palmeiras dove giocherà fino a 38 anni. Non dimenticherà mai Firenze e la Fiorentina: alla sua morte nel 2003 si apprese che aveva fatto dipingere di viola i muri della sua stanza e aveva disposto che sulla sua bara, insieme a quelli delle altre società in cui aveva militato, fosse steso un labaro viola.