JAIR – JENSEN – JEPPSON – JORDAN – JULINHO – JUNIOR – KROL
Un destino segnato fin dal giorno del battesimo, quello di Jair da Costa. Fu infatti il padre, grande tifoso di Jair Ademir, campione che furoreggiava in Brasile alla fine degli anni Trenta, a volere che il suo terzogenito si chiamasse come il suo idolo. E il suo ragazzo al pallone si appassionò giovanissimo, alternando però le partitelle in strada al ciclismo, altra disciplina in cui eccelleva. Per sua fortuna rifiutò di diventare un ciclista professionista, per potersi dedicare al suo vero grande amore, il calcio. Ben presto venne scelto dal Portuguesa, che, dopo una breve militanza nelle formazioni giovanili, lo fece esordire nel massimo campionato. Appena ventiduenne vestì la casacca verdeoro della Nazionale, e i maggiori club del vecchio continente iniziarono a interessarsi a lui.
Il Milan, giudicandolo troppo “leggero” per il nostro campionato, lo scartò, lasciando via libera proprio ai cugini nerazzurri, che prontamente tesserarono il piccolo asso brasiliano. I primi mesi a Milano non furono però incoraggianti: come tanti suoi connazionali, Jair da Costa soffriva di ”saudade”, la nostalgia di casa dura a guarire. Superstizioso, il primo alloggio nelle vicinanze del cimitero aumentava la sua malinconia. Si chiudeva in camera, imposte abbassate, per ascoltare samba a tutto volume. Smentendo però tutti quelli che lo davano prematuramente per fallito, all’esordio in novembre andò subito a rete, suscitando entusiasmo per il suo gioco tutto scatti irrefrenabili, dribbling e tiri in porta. Da quel momento in poi diventò titolare inamovibile, incarnando uno dei tasselli preziosi del mosaico di Helenio Herrera: squadra chiusa in difesa, pronta a lanciare il contropiede per i “veltri” Jair e Mazzola. Dotato di un’ottima tecnica, veloce e imprevedibile, il suo scatto bruciante tranciava le difese e gli valse il soprannome di “Giaguaro”, il suo tiro in porta era un graffio poderoso e preciso. Difettava soltanto nel colpo di testa, choccato dal ricordo giovanile di un compagno di squadra entrato in coma a causa di uno scontro aereo con un avversario durante una partita. Fu protagonista di tutti i trionfi della Grande Inter dove giocò per 10 anni tranne l’intermezzo del torneo 1967/68 con la Roma.
Insegnante di scuola media, giocatore di calcio a tempo perso nell’AB Copenaghen, una volta ingaggiato dal Bologna non tardò a rivelarsi come uno dei più forti mediani della storia del club petroniano. Purtroppo per lui, la formazione che lo accolse sotto le Due Torri nell’autunno del 1949 era soltanto lontana parente dello squadrone che aveva fatto tremare il mondo fino a pochi anni prima. Ma Ivan Jensen non solo fu sempre fra i migliori in campo, per continuità e rendimento, ma ebbe anche il grande merito di segnalare alla società il connazionale Axel Pilmark: «Prendetelo, è più bravo di me». Ivan Jensen fece il suo debutto nel nostro campionato nel dicembre del 1949, essendo stato acquistato al mercato autunnale, in un Venezia-Bologna sospeso per nebbia (poi 6-1 per i rossoblu), e impressionò per la facilità con cui riuscì a inserirsi negli schemi della squadra, grazie al suo grande senso tattico. Con Pilmark era il vero motore della squadra, capace di difendere e subito dopo ripartire per organizzare un’azione offensiva, grazie ai piedi sapienti (difettava solo nel tiro a rete) e alla visione di gioco. Al momento del suo addio al calcio, nel 1956, tornò in patria per riprendere la cattedra abbandonata anni prima. Ma senza mai dimenticare la città che lo aveva amato.
Hans Jeppson è tuttora famoso per essere stato il primo giocatore del nostro campionato pagato più di cento milioni. Calciatore per diletto, fin da bambino preferì al football il più aristocratico tennis, che rappresentava il suo vero grande amore e che a soli diciotto anni lo vedeva al nono posto della classifica nazionale. Anche la passione per il calcio era tuttavia forte. Dalle giovanili del Goteborg passò al Djurgaarden. seminando gol a raffica. Nel 1949 venne per la prima volta convocato in Nazionale, per affrontare l’Inghilterra, mai battuta in precedenza dagli scandinavi. Fu 3-1 per gli svedesi, con una gran rete del giovane Jeppson. Che gli valse la conferma ai Mondiali brasiliani del ’50, dove con una doppietta eliminò gli azzurri campioni in carica. Secondo tradizione, i club italiani si scatenarono a caccia dei campioni svedesi, ma Jeppson. temendo che il passaggio al calcio professionistico potesse compromettere la sua carriera di tennista, resistette. Si recò in Inghilterra per approfondire la conoscenza dell’inglese e per frequentare un corso di marketing. In terra d’Albione continuò a giocare a football come dilettante, contribuendo a suon di gol ( 12 in 11 partite) alla permanenza nella massima serie del Charlton: addirittura, per permettergli di giocare anche l’ultimo incontro, un elicottero atterrò sul campo per portarlo in tempo al piroscafo con cui doveva tornare in Svezia. Pochi mesi dopo, il grande salto. Nuove norme gli permettevano di coniugare le carriere di calciatore-pro e di tennista dilettante e soprattutto l’Atalanta offriva 50 mila dollari, una sirena che Jeppson, assunto come rappresentante di una ditta inglese di calcolatrici, non poteva ignorare. Forte di testa, abile coi piedi, capace di ricamare come di sfondare in area, ma soprattutto dotato di un quasi rabbioso senso del gol, il suo talento esplose subito, regalando una stagione d’oro alla sua squadra. Al termine di quel campionato si scatenò un’asta attorno al suo nome. A spuntarla fu il Napoli del comandante Lauro, che su quel giocatore investì 105 milioni, record assoluto dell’epoca. Li ripagò a suon di gol, anche se lo scudetto restò lontano dal Vesuvio.
Tipico esempio di calciatore double-face: fenomeno oltremanica e con la maglia della nazionale scozzese, gran delusione nelle aree di rigore italiane. Eppure, pareva proprio che lo “Squalo” (in Inghilterra “Jaws” — fauci — dall’omonimo film di Spielberg), così chiamato per l’inquietante aspetto che gli conferiva la mancanza dei due incisivi superiori, persi in uno scontro di gioco, fosse l’uomo giusto per contribuire alla rinascita del Milan, tornato in A dopo un anno di purgatorio per il calcioscommesse. Joseph Jordan, che fuori dal campo esibiva una perfetta protesi a completarne la dentatura, non ebbe fortuna. A Manchester la sua partenza aveva provocato quasi una sollevazione popolare, in Italia il suo gioco tutto irruenza e scarsamente tecnico non trovò l’habitat ideale (la manovra britannica ricca di traversoni dal fondo) e la sua squadra fin dall’inizio si trovò invischiata nella lotta per la salvezza. Scarsamente rifornito, incapace di inventare gol, a fine stagione Joe Jordan si trovò col Milan in B. Bollato come “bidone”, venne confermato a sorpresa con una geniale intuizione: riportato a climi più da battaglia che da fioretto, lo “Squalo” fu determinante coi suoi gol al pronto ritorno in A del Milan. Travolgente sul piano fisico, fortissimo di testa, dimostrò di poter essere un centravanti di sfondamento anche nel calcio italiano. Ma la stagione successiva, di nuovo in A, a Verona, fallì ancora la prova.
Fantasia, genio, virtuosismi raffinati, un dribbling imprevedibile, senso del gol: Júlio Botelho , in arte Julinho, aveva tutto per strappare l’applauso alla folla, ma non cercava di approfittarne. Tutto il suo traboccante talento lo riservava alle ragioni della squadra, tutte le espressioni pirotecniche di cui era capace le limitava al campo. Fuori, il suo sguardo malinconico gli valeva il soprannome di “Buster Keaton” e nulla del suo modo di essere faceva trasparire la fantasmagoria di invenzioni di cui era capace sul terreno di gioco.
Alto, longilineo, era uno dei sei figli di Francisco, negoziante di San Paolo. Cresciuto nella Juvenil Palmeiras, era passato al club del Sindacato tessili e poi alla Juventus di San Paolo, prima di esplodere nel Portuguesa, dove da interno era diventato ala destra e aveva conquistato la Nazionale, giocando (tre partite e due gol) lo sfortunato Mondiale 1954. Contattato subito dall’Inter, aveva rifiutato, essendogli appena nato il primo figlio. L’anno dopo accettò invece la Fiorentina: «Un’ala» sentenziò il suo tecnico, Bernardini «può arrivare fino a Julinho. Non oltre».
Timido e taciturno, in campo è inarrestabile. Conquista lo scudetto, poi, scaduto il biennale, torna in patria.
Dopo una lunga trattativa torna in viola, ma nel 1958, irremovibile, se ne va al Palmeiras dove giocherà fino a 38 anni. Non dimenticherà mai Firenze e la Fiorentina: alla sua morte nel 2003 si apprese che aveva fatto dipingere di viola i muri della sua stanza e aveva disposto che sulla sua bara, insieme a quelli delle altre società in cui aveva militato, fosse steso un labaro viola.
Leovegildo Lins da Gama Junior iniziò la carriera in una formazione di “futébol da praia”, il popolare calcio da spiaggia tanto amato a Rio. Giovanissimo, scoperto da un poliziotto per diletto osservatore del Flamengo, dopo la trafila nelle giovanili esordisce in prima squadra al fianco di Zico. E’ un terzino d’attacco sensazionale, per la capacità nelle chiusure, la tecnica individuale e la velocità, che ne fanno un’ala aggiunta efficacissima, molto ammirata ai Mondiali 1982. Nell’estate del 1984 lascia il Flamengo, già orfano dell'”udinese” Zico e in crisi di risultati, e approda al Torino, dove viene utilizzato come centrocampista, una specie di regista arretrato, diventando in breve il leader della squadra che nel 1984-85 si piazza seconda. Al terzo anno nascono i primi dissapori, che culmineranno in una sfuriata con l’allenatore Radice e nel conseguente addio. Due anni a Pescara, con una salvezza e una retrocessione, ma sempre sulla cresta dell’onda. Nella seconda stagione in riva all’Adriatico fu eletto miglior straniero del campionato davanti a Maradona, Careca e Gullit.Tornato a vestire la maglia del Flamengo, che gli garantì solo la quarta parte dell’ingaggio percepito in Italia, vincerà ancora una Coppa del Brasile nel 1990, un Campionato carioca nel 1991 e un Brasileirão nel 1992, ultimo trionfo della sua longeva attività agonistica. Si ritirò infatti quello stesso anno, quasi trentottenne.
Come tanti suoi colleghi, fu spinto sui sentieri della pedata dal padre, ex calciatore nella massima divisione olandese. Probabilmente Ruud senior non avrebbe mai immaginato di fare in quel modo la fortuna del figlio e di un intero Paese, l’Olanda. Duttile fin da ragazzo, Ruud Krol cominciò dapprima come centravanti, per arretrare poi a centrocampista e infine a difensore, ruolo che avrebbe ricoperto ai massimi livelli mondiali, nell’Olanda dell’eclettismo elevato ad arte. Terzino sinistro dalle travolgenti iniziative offensive, chi lo ha visto giocare difficilmente può aver immaginato che quella specie di bisonte dal tocco morbido e intelligente fosse diplomato in pizzi e merletti. Il padre, divenuto commerciante di tessuti, aveva fatto imparare al figlio quell’antica arte fiamminga, che avrebbe potuto tornargli utile in caso di fallimento sui campi da gioco. Al biondo Ruud non occorse mai intrecciare centrita-vola e trapunte. Nel 1967 fu tesserato dall’Ajax, lo squadrone destinato a fare il vuoto nell’Europa dei primi anni Settanta. Al fianco di campionissimi come Cruijff e Neeskens vinse tutto, in patria e nel resto del continente. Per due volte, con la maglia dell’Olanda, raggiunse la finale di coppa del mondo, ma senza successo: il suo più grande rimpianto professionale. Dopo tredici anni con la casacca dell’Ajax il grande salto: decise di tentare una nuova avventura in Canada, dove stava nascendo la prima lega nordamericana. Una “pazzia” durata appena sei mesi, poi Ruud, contattato dal Napoli, fece ritorno nel grande calcio. Con la maglia di libero, nonostante un brutto infortunio che fece temere per la sua carriera, sotto il Vesuvio si calò nei panni del leader, dettando legge in difesa e a centrocampo’ come sontuoso califfo del pallone. A Napoli si fermò per quattro stagioni, facendo innamorare i tifosi partenopei, che con lui iniziarono a sognare in grande.