Sparwasser, l’Operaio che umiliò l’Ovest

Lui mirò lì: al cuore del capitalismo. Un gran destro in diagonale, che il portiere Maier non aspettava. Un gol rosso, comunista, operaio. Ci sono tiri che fanno venire giù lo stadio, il suo fece crollare il muro, un pò prima del previsto.


Lui mirò lì: al cuore del capitalismo. Un gran destro in diagonale, che il portiere Maier non aspettava. Un gol rosso, comunista, operaio. Ci sono tiri che fanno venire giù lo stadio, il suo fece crollare il muro, un pò prima del previsto.Era il 77′ minuto. Nello stadio di Amburgo 58.900 tedeschi (dell’ovest) ammutolirono davanti al successo della DDR, come si chiamava allora. 1-0 e il mito dell’ efficienza tedesca andava a pezzi.

Nel primo e ultimo derby tra le due Germanie, mondiali 1974. La misera Trabant sorpassava la potente Mercedes. E al volante c’ era lui: Jürgen Sparwasser, 26 anni, giocatore del Magdeburgo, che prese la palla a centrocampò, fregò Kaiser Franz, e bucò per sempre la rete della Germania. Ci sono spine che non se ne vanno. Per venti minuti Beckenbauer continuò a urlare «Non è successo niente», ma si sbagliava.

Quel gol è l’onta dell’ovest, il segno di una superiorità in frantumi. Allora Sparwasser è contento?
«Bè di quel gol sì. E’ di marmo. Se lo ricordano tutti. Anche se ne ho segnato di più belli e nel ’74 ho vinto una Coppa Uefa battendo 1-0 il Milan a Rotterdam. In più sul Volksparkstadion c’era il pericolo del gruppo terrorista rosso Baader-Meinhof. Minacciarono di imbottirlo di tritolo e di farlo saltare proprio durante quella partita. Due anni prima c’era stata la strage di Monaco».

Perfino Gunter Grass ha scritto su di lei.
«Non casco dalle nuvole. So di essere l’eroe di un’epoca che non tornerà. Quel giorno al Volksparkstadion gli 8.500tedeschi arrivati ad Amburgo con i treni dall’est e con un visto turistico che durava giusto il tempo della partita, alzarono le braccia. Per il gol sì, ma anche per tutto quello che significava. Quella rete diventò per un anno la sigla di molti programmi sportivi. E dopo la caduta del muro, per ricostruire un’identità sportiva collettiva, tutti chiedevano all’altro: dov’eri quando Sparwasser segnò?»

Ecco, appunto, la sua famiglia dov’era?
«A casa, la mia era una famiglia operaia, con mia madre che badava ai figli. Anche da noi le partite venivano trasmesse in tv, tanto che a quell’ora le strade erano deserte. La Ddr era sicura. La vigilia fu deprimente».

Sconfitta sicura, vero?
«Molto di più. La Ddr si aspettava una disfatta. Quanti ne becchiamo?, di questo si parlava. Noi contavamo sul catenaccio, non avevamo tattica, arrivavamo al calcio come scarti di altre discipline, spesso dall’atletica. Loro erano star internazionali. Avevano la reggia prussiana di Beckenbauer, mentre noi eravamo solo degli onesti somari. Non so perché, forse presi dal panico, cominciarono a buttare tutti palloni alti. Muller era piccolino, noi più grossi. E poi Beckenbauer disse quel nome: Waterloo».

E’ vero che lei fu premiato con auto, casa e conto in banca?
«Magari. E’ solo una favola. Avevamo pattuito un premio di 2.500 marchi a giocatore se la nazionale avesse raggiunto la seconda fase. Regali che andavano oltre, erano impensabili nella Ddr».

Quel gol è ancora in fondo alla rete.
«Sì a giudicare dagli inviti che ricevo. Sono appena stato a Lipsia ad una mostra sul calcio di artisti d’avanguardia. Mi è toccato dare una pedata ad un pallone pieno di letame. Bah».

E’ vero che alla fine di quella partita nessuno volle la sua maglia?
«Diavolo, puzzava in maniera terrificante. Ma le cose sono andate diversamente, lasciai il campo per ultimo, perché i giornalisti mi trattennero. Nel tunnel che conduceva agli spogliatoi mi aspettavano Paul Breitner e Wolfgang Overath. Scambiai la maglietta con il primo. Quando ci fu nel 2002 la grande alluvione in Germania, Breitner decise di metterla all’asta, il ricavato andava alle vittime della catastrofe. Mio nipote vide la trasmissione e mi convinse a donare la maglietta. La persona che ha acquistato la maglia mia e di Breitner ha pagato 35.000 euro e l’ha poi donata alla Casa della Storia di Bonn».

Sorpreso di essere ancora una notizia?
«Sì, ma a cambiare è soprattutto la geografia dei media, la televisione è diventata predominante e insieme a lei la sofisticazione tecnologica: oggi lo spettatore viene sommerso di immagini. Nel 1974 le riprese erano ad angolazione fissa, fatto che permetteva una netta divisione dei ruoli: giocatori, arbitri, spettatori».

Nel ’74 la Germania era divisa, ora è unita.
«Non vinceremo perché siamo uniti, ma il paese doveva essere riunificato».

C’è uno Sparwasser oggi?
«Il paragone è difficile. Il livello tecnico della Germania non è alto. Non voglio dire che assomiglia alla nostra vecchia Ddr, ma Italia, Brasile e Inghilterra sono superiori. Mi dispiace per la signora Merkel che ha bisogno di un po’ di ottimismo per far ripartire l’economia, ma non abbiamo nessuna possibilità di diventare campioni del mondo. Kahn, Lehmann, Ballack e Klose sono di alto livello, attorno però hanno giocatori troppo giovani e inesperti».

L’hanno chiamata traditore…
«Ho segnato all’ovest calciando il pallone dall’est, e poi nell’88 sono scappato al di là del muro. Chiaro che i funzionari non hanno preso bene la mia fuga: “No, Sparwasser, lui proprio no”».

La Germania ora si riscopre felicemente patriottica.
«Grazie al calcio. E stavolta va bene. E’ un patriottismo buono, moderno, senza le lugubri complicità del passato. L’identità tedesca è sofferta, si rischiava di essere definiti di destra se solo si diceva di essere tedesco. C’erano tempi in cui i giocatori della nostra nazionale davano l’aria di essere costretti a giocare
per la Germania. Quasi vergognandosi. Adesso la situazione è cambiata, sono tutti più entusiasti. Prima se agitavi la bandiera ti davano del militarista, adesso ti prendono per tifoso. Bel passo avanti, no?».

Testo di Emanuela Audisio, giugno 2006