CHIARUGI Luciano: Cavallo Pazzo

Lo chiamavano Cavallo pazzo per gli estri di un carattere che non tanto era bizzoso quanto docile agli impulsi saturnini che le ali di una volta parevano serbare in esclusiva: come già negli anni trenta il leggendario Mumo Orsi, costui segnò dei gol direttamente dal calcio d’angolo (colpo di interno sinistro che si impenna e spiove improvviso e beffardo, con effetto a rientrare, nel primo angolo); per lui venne inventata persino la parola chiarugismo, che sta per attitudine simulatoria di chi, al minimo contatto, è propenso a rovinare per le terre e ad inscenare, come scrisse tante volte Gianni Brera, «lazzi da morituro». Non è che barasse di proposito: semmai ci marciava, visto che i terzini dei suoi tempi (per esempio Luciano Spinosi della Juve, con cui ingaggiò duelli memorabili, quasi cruenti) ne soffrivano i dribbling alla stregua di solenni prese in giro e dunque, molto volentieri, lo picchiavano.

Non ha avuto una carriera nemmeno così sfolgorante, Luciano Chiarugi da Ponsacco, dove è nato il 13 gennaio del ’47, eppure è stato un campione di classe cristallina e il firmatario di taluni gol la cui bellezza è ancora memorabile. Dopo tutto, Chiarugi ha giocato per vent’anni da professionista: sei alla Fiorentina di Bruno Pesaola (dove vince uno scudetto inopinato, nel ’69, con colleghi di reparto quali i vecchi Maraschi e Amarildo) poi, all’apice della parabola, nel Milan di Rocco e di Gianni Rivera (una Coppa delle Coppe, nel ’73, e, lo stesso anno, un campionato perso clamorosamente col Verona all’ultima giornata) quindi, dal ’76, nel Napoli, nella Sampdoria e nel Bologna, fino alle estreme comparsate di Rondinella e Massese.

Chiuso in nazionale da nomi altisonanti e spesso sopravvalutati, vi gioca (incredibile) appena tre partite ma il suo esordio contro la Germania Est, a Napoli, il 22 novembre del ’69, è tra quelli che hanno fatto la storia degli azzurri; mancino naturale e ambidestro per elezione, quel giorno porta il 7 sulla maglia mentre il 9 spetta al fondista Domenghini, centravanti truccato: perciò Chiarugi è libero di svariare in avanti, ora da vera e propria ala con il compito delle rifiniture, ora invece da seconda punta di sostegno a Gigi Riva: nel più vertiginoso contropiede, è Chiarugi a lanciare l’azione che culmina nel famosissimo gol di testa in tuffo, il volo d’un barracuda, firmato da Riva medesimo.

Rewind. Torniamo indietro nella Ponsacco del 1958. La locale squadra di calcio va a rotoli. Urge un rimedio tempestivo; si interpella Scagliotti. Cinzio accetta e, due volte la settimana, è là sul campo con la passione e la serietà di sempre. Fra i piedi ha un ragazzino alto due soldi di cacio, con nell’anima tanta voglia di giocare: anche se ha solo il sinistro, il frugoletto piace a Scagliotti, che lo vuole a Firenze. Il padre, però, vuol farne un falegname. Dopo duri contrasti, la spunta Cinzio e Luciano Chiarugi va incontro al suo destino. La “freccia di Ponsacco”, com’era chiamato, viene preso nelle giovanili della Fiorentina.

A quell’epoca, 1965 e dintorni, da ragazzini si gioca nella Primavera e la domenica – quando scende in campo la prima squadra – si fa il raccattapalle allo Stadio (che allora si chiamava Comunale), nella speranza che prima o poi il Mister si accorga di te. In quel periodo il Mister è uno che ci capiva, Beppe Chiappella, preoccupato di trovare un giovane sostituto per Uccellino Hamrin che si avvicina al viale del tramonto. In realtà in squadra c’era già quel Mario Brugnera preso un paio d’anni prima a Venezia dal duo di talent scout Baglini – Pandolfini, ma la Fiorentina ye ye di quell’epoca vive sulle giovani promesse, e quante più ne scopre meglio era.

Cavallo Pazzo comincia la sua epopea il 30 gennaio 1966 a Brescia, in una partita che la Fiorentina vinse per 2-1. Nel campionato del 1966-67 il trio delle meraviglie Hamrin-Brugnera-Chiarugi segna 21 reti. Alla fine di quella stagione Uccellino vola via verso Milano rossonera e alla fine di quella successiva, estate 1968, tocca a Brugnera salpare le ancore verso Cagliari. All’epoca funzionava così: Baglini faceva quello che in epoche successive è riuscito bene all’Udinese di Pozzo, lanciare giovani campioni e fare cassa per investire di nuovo in altri talenti ancora più giovani ed ancora più forti.

All’avvio del campionato 1968-69 il giovane Chiarugi si trova a condividere la responsabilità di un attacco viola completamente rinnovato con i più esperti Mario Maraschi e Francesco Rizzo. Apparentemente sembra una squadra viola assai ridimensionata e non certo inserita tra le favorite per lo scudetto nei pronostici degli addetti ai lavori. In realtà, con la fortuna che a volte aiuta gli audaci e i capaci, Baglini e i suoi ragazzi finiscono per cucirsi lo scudetto sulle maglie al termine di una cavalcata emozionante a cui proprio Luciano mette il suggello, l’11 maggio 1969, con la rete del vantaggio viola al Comunale di Torino contro la Juventus, che dà la matematica certezza del titolo.

Ma l’inserimento di Chiarugi negli schemi di Pesaola non è certo facile, anzi. Cavallo Pazzo non è tipo da farsi imbrigliare facilmente, nemmeno da un duro come il ”Petisso” che prima tenta con la carota, poi passa a un più affidabile randello: alla decima di campionato, contro il Napoli, l’8 dicembre 1968, lo sostituisce con Esposito dopo un primo tempo irritante. Bene, il neppure ventiduenne Luciano non avrebbe rivisto il campo fino quasi a primavera. Sarebbe rimasto ad allenarsi duramente e a meditare sulle sue sventure. Tre mesi di esilio dalla prima squadra possono sembrare eccessivi, ma il Petisso alla fine la vince. Resosi conto di avere domato quel purosangue, decide di gettarlo nuovamente nella mischia. Il 9 marzo 1969, infatti, un irriconoscibile Chiarugi, completamente trasformato dalla cura, fa nuovamente capolino nell’incontro col Vicenza. Ebbene, Cavallo Pazzo realizza due gol e da quel giorno non lascia più la prima squadra trascinandola alla vittoria finale a suon di reti, con disciplina e senso tattico.

Nella stagione successiva, quella in cui il titolo passa al Cagliari di Gigi Riva e del suo ex compagno Brugnera, Luciano Chiarugi ha la sua definitiva consacrazione, con 12 reti segnate e la convocazione in nazionale da parte di Ferruccio Valcareggi. Anche la sua leggenda nera contro gli arbitri ha la sua consacrazione in quell’annata, dallo scontro con Concetto Lo Bello nella partita casalinga proprio contro i sardi che segna il passaggio di testimone tra le due squadre (grazie anche al gol annullato all’ala viola per un fuorigioco che ancora fa discutere), fino ai problemi con altre giacchette nere come quel Michelotti che lo prende di mira come cascatore e che conia appositamente per lui ed i suoi emulatori il termine “chiarugismo”, un appellativo che lo danneggerà gli anni seguenti.

Tanti anni a Firenze, gioie ed amarezze, arriva da ragazzino ed è pronto a ripartire da uomo: «Nella squadra viola dribblavo tutti: i compagni magari dicevano che ero egoista, ma ai tifosi piacevo così. Giocavo d’istinto, in campo mi sembrava di essere solo. Mi ordinarono di stare più arretrato, obbedii. Ma non era il mio gioco, in certe partite quasi non mi si vedeva. Mi sentivo come prigioniero. Magari arrivava qualche fischio ed io morivo di rabbia: mica potevo gridare al pubblico che non era colpa mia, che era colpa di chi mi impediva di fare ciò che volevo. Dovevo accusare Liedholm, o Pesaola? Stavo zitto, e mandavo giù il rospo»

Nell’estate del 1972 Chiarugi lascia così la Fiorentina. Una decisione dolorosa presa da Nils Liedholm, tecnico dei viola, ma ormai per “cavallo pazzo” la piazza toscana s’è fatta difficile. È il Milan a vincere la concorrenza dell’Inter: il presidente Buticchi con uno stratagemma (fingendo cioè di disinteressarsi totalmente dell’attaccante) brucia sul filo di lana del calciomercato l’ingenuo Fraizzoli e per circa 400 milioni l’attaccante passa agli ordini di Rocco.

Si racconta che quando Chiarugi arriva davanti a Rocco, è talmente emozionato che sembra ancora più piccolo del suo metro e settanta. E Rocco lo apostrofa cosi: «Mi hanno parlato di un grande Chiarugi. Sei tutto qui?». Ma Nereo, gran conoscitore di uomini, lo capisce subito: «Quando Chiarugi arrivò da noi era già famoso come calciatore e come personaggio. Aveva, però, quella sicurezza nei suoi mezzi che a lungo andare può benissimo venir scambiata con la presunzione. Il suo gioco era spesso vincente, impensabile tuttavia un suo dialogo con i compagni. Così cercai d’inserirlo in un contesto meno individualista e più collettivo, limando i tunnel e la sua ricerca del numero per far divertire la platea. Ho solo tentato, però, perché un Chiarugi o lo si ripudia, oppure lo si accetta in blocco. Con lui non esistono mezze misure».

Chiarugi però arriva al Milan nel momento più infausto. Nessuno vuole ammetterlo, ma la squadra di Rocco è al suo autunno: via Sormani, Hamrin, Trapattoni, Pierino Prati, dell’antico squadrone è superstite il solo Rivera che prodiga gli spiccioli di una classe immensa; Chiarugi, circondato in attacco da svariati mezzi-giocatori, si batte per due e per tre ma, ovviamente, non basta. Il Milan deve a lui e ad un portiere regolarmente sottovalutato (William Vecchi da Scandiano, piccolo e gracile all’apparenza ma forte tra i pali e coraggioso nelle uscite come pochi altri) se la sera del 16 maggio del 1973, a Salonicco, in una buca fradicia di pioggia, strappa al Leeds la Coppa delle Coppe nella maniera più inaudita e beffarda; dopo quattro minuti di gioco, è il campione toscano che, al cospetto di Rivera, si arroga il diritto di battere la punizione dal vertice destro dell’area: il suo sinistro bagnato e rasoterra, gravido di effetti centripeti, entra dal primo palo; i residui ottantasei minuti di gioco sono come una partita a flipper, con gli inglesi che spingono e vanno all’assalto mentre gli uomini di Rocco non riescono ad uscire dalla propria area di rigore.

La situazione si ripete a San Siro pochi mesi dopo, nella finale interna della Supercoppa Europea; stavolta c’è l’Ajax, appena orfano di Cruyff ceduto al Barcellona, ma ancora ben munito dei suoi Neeskens, Krol, Haan, Hulshoff, Muhren, Rep. Fa freddo, si gioca di mercoledì nel primo pomeriggio e allo stadio c’è pochissima gente; l’Ajax picchia a martello sulla porta del Milan ma lì c’è sempre William Vecchi, l’ineffabile, che vola da palo a palo. Ecco quanto avviene a un quarto d’ora dalla fine, stando alla cronaca di Brera che esce su Il Giorno del 10 gennaio ’74: «La rimessa di Vecchi è poderosa: (…) Chiarugi la controlla con il suo piedino maligno: Suurbier e Krol sono lontani a dar lezioni di calcio offensivo; il pastore tedesco Blankenburg lancia un ringhio disperato e tenta il placcaggio con tanto ritardo che Chiarugi gli sfugge: siamo tutti in piedi: siamo tutti pronti a vivere la gran beffa, che viene infatti regolarmente consumata: esce Stuy dalle ossute ginocchia vaccine: brancica nel vuoto: Chiarugi sferra un sinistro che solleva la rete! Il pastore tedesco si morde le pugna; gli altri inveiscono stupiti (…) dal cigno di Lohengrin scende quel toscanuzzo tutto verve e prudenza: in luogo dello spadone ha lo spillo del pigmeo: eppure, guarda che buco».

Nell’estate 1976, dopo un ultimo anonimo campionato con i rossoneri, viene scambiato con Giorgio Braglia, e sbarca a Napoli dove ritrova il fido Pesaola (“con i suoi cross Savoldi segnerà un sacco di gol ed il Napoli vincerà finalmente lo scudetto!…” era il commento generale in estate) con cui ha condiviso i trionfali trascorsi fiorentini. La prima stagione è tutto sommato positiva, nonostante qualche inatteso stop muscolare. I guai arrivarono l’anno dopo, col nuovo mister Di Marzio che si dimostra poco disponibile nei suoi confronti preferendogli l’emergente Capone. Chiarugi quasi vuole gettare la spugna: l’incompatibilità col tecnico diventa un fardello insostenibile per entrambi, e i risultati sono conseguentemente scadenti…

Da allora inizia la parabola discendente di Luciano: un odissea di esperienze mai pienamente soddisfacenti che lo portano a trasferirsi da una stagione all’altra in squadre sempre diverse. Nel 1978-79 passa alla Sampdoria, in serie B, l’anno dopo al Bologna in A (è l’anno del calcioscommesse); di seguito Rimini (ancora B) e Rondinella (serie C2), per poi chiudere il sipario del calcio giocato con la Massese nel 1984.

Subito dopo il suo ritiro, la Fiorentina di Pontello lo prende come allenatore della Primavera e comincia così per lui una seconda vita. L’ex ragazzo dal talento tumultuoso dimostra subito di cavarsela bene a gestire il talento dei ragazzi delle nuove generazioni. Nel 1993, l’anno in cui Vittorio Cecchi Gori esonera prima Radice e poi Agroppi, che resiste poche partite sulla panchina di una squadra in caduta libera nonostante i suoi campioni, l’onere di chiudere quel campionato con la salvezza tocca a Luciano Chiarugi e alla bandiera Antognoni. I due ci mettono il cuore e il valore per la loro Fiorentina ma la cauta in serie B è ormai inevitabile, Luciano Chiarugi riprende ad allenare la Primavera, amareggiato ma con ben poche colpe.

L’anno dopo al Torneo di Viareggio la sua splendida Primavera arriva in finale, poi persa, contro la Juventus. L’anno dopo vince la Coppa Italia Primavera, e continua a dirigere da allenatore il settore d’eccellenza della Fiorentina, la Primavera fino al 2001, anno in cui la squadra maggiore ha nuovamente bisogno di lui. Dapprima si tratta di traghettare la panchina dal transfuga Terim all’enfant prodige neopatentato Mancini. Poi l’anno dopo, fuggito anche Mancini regge la squadra fino all’arrivo di quell’Ottavio Bianchi che metterà la pietra tombale sulla Fiorentina di Cecchi Gori, che retrocede e fallisce nell’estate di quel 2002.

In panchina Chiarugi si rivela molto meno pazzo di quanto il soprannome possa far pensare dimmostrando i avere piedi ben piantati in terra, un’ottima base tecnica e solidi valori affettivi che considera la ricchezza maggiore da possedere. E soprattutto manterrà sempre un’idea ancora romantica del gioco del calcio, privilegiando l’uomo rispetto al giocatore.