Ajax-Juve 1973: malgrado Belgrado

Se si potesse sintetizzare con un aggettivo, uno solo, quella finale di Coppa Campioni del 1973, fra Ajax e Juventus, direi: avvilente. Perché si era sviluppata un’enorme l’attesa, intorno all’evento, e per la prima volta nella sua storia il calcio aveva conosciuto un grande esodo; quarantamila juventini disperatamente protesi su Belgrado con ogni mezzo, a costo di sacrifici e peripezie inimmaginabili.

Perché da una parte c’era l’invincibile armata di Johan Cruijff e dall’altra un’orgogliosa Signora finalmente determinata ad apporre sul proprio blasone anche una significativa tacca internazionale. Perché si confrontavano le scuole tattiche di grido, quella emergente del calcio totale e quella inaffondabile del sano calcio all’italiana, difesa e contropiede.

E tutto si consumò in quattro rapidi minuti: il tempo che occorse a Johnny Rep, centravanti-esterno, per beffare di testa i mastini della retroguardia bianconera. Quattro minuti e calò il sipario. L’Ajax nascose la palla nella sapiente ragnatela del suo palleggio, l’intorpidita Juve non uscì mai dal suo guscio: non accadde più assolutamente nulla e un gelo progressivo scese sul grande stadio vociante.

LE SIRENE

La vigilia era stata a dir poco anomala. La Juventus aveva adottato una soluzione monastica. I giocatori erano stati rinchiusi in un vecchio castello, tetro, silenzioso, fuori dal mondo. Le ore trascorrevano lentissime, come confessavano i forzati “trappisti” nei radi e programmati incontri con la stampa. L’allenatore era “CestoVycpalek, lo zio di Zeman, un boemo che era stato buon giocatore e ottimo amico di Boniperti.

Una volta presidente, Giampiero si era ricordato di lui, quando l’affascinante esperimento di Armandino Picchi era finito in tragedia. Vycpalek aveva preso le redini, conscio del suo destino: sarebbe stato responsabile solo delle sconfitte; per le vittorie, gli onori e i peana sarebbero toccati ad altri. Boniperti e Allodi, strana coppia destinata a dividersi ma subito vincente, erano i padroni del vapore.

L’Ajax sembrava l’altra faccia della luna. La guidava un romeno giramondo, furbo e geniale, Stefan Kovacs, che si era disinvoltamente attribuito i meriti del gioco totale, in realtà introdotto da Rinus Michels prima di lui, e che aveva guadagnato la fiducia dei campioni alle sue dipendenze (si fa per dire) lasciando le redini lunghissime. Così Cruijff e compagni avevano piena libertà d’azione.

Preparavano la partita stazionando di preferenza nella piscina dell’albergo, ai cui bordi concedevano le interviste, attorniati da splendide, biondissime sirene. Si erano fatti seguire da mogli, compagne, fidanzate e quant’altro. Fra il monastero juventino e la Bengodi olandese il contrasto era stridente al massimo.

CRUIJFF ADDIO

Non era la sola anomalia, quella presenza di femmine ammalianti, nel clan dell’Ajax. Si respirava un’aria strana, come quando una storia meravigliosa sta per arrivare al capolinea. L’Ajax era alla sua quarta finale europea in cinque anni, le ultime due le aveva vinte con facilità, su Panathinaikos e Inter. La presunzione di invincibilità le era ormai entrata nella pelle. E tuttavia grandi avvenimenti stavano maturando.

Cruijff era in partenza, attratto dai messaggi d’amore (e dalla montagna di pesetas) che gli arrivavano da Barcellona, dove era andato a operare proprio Michels, il suo antico maestro. E Cruijff non era solo il fuoriclasse di quella squadra; era il suo faro e il suo carisma: senza di lui, non sarebbe più stata la stessa cosa, ci voleva poco a capirlo. Così, i lancieri preparavano la festa d’addio. Disprezzavano il calcio italiano come un residuato preistorico. L’anno prima avevano spazzato via il catenaccio dell’Inter e non si aspettavano niente di diverso dalla Juventus.

In semifinale, l’Ajax aveva battuto il Real Madrid in casa e fuori; nei quarti, aveva rifilato un fragoroso 4-0 al grande Bayern di Franz Beckenbauer, rivale storico. Quella partita, all’Olimpico di Amsterdam, era stata etichettata come la più formidabile espressione di tecnica e potenza mai offerta da una squadra di club. La finale era considerata niente più che una formalità.

CHE SCUDETTO!

La Juventus, a sua volta, veniva da un’esperienza euforizzante. Dieci giorni prima della finale di Belgrado aveva vinto il suo quindicesimo scudetto, sicuramente il più incredibile e rocambolesco. A una giornata dalla fine, tre squadre erano ancora teoricamente in lizza: Milan punti 44, Juve e Lazio 43. Tutte e tre in trasferta, per l’ultimo atto: la Lazio a Napoli, la Juve a Roma contro i giallorossi, il Milan a Verona. Verona modesto, già salvo e appagato: per il Milan doveva essere una passerella trionfale.

E invece il Diavolo, reduce dalla battaglia col Leeds a Salonicco, dove aveva vinto una drammatica Coppa delle Coppe quattro giorni prima, crollò fragorosamente: la fatale Verona, appunto. Cinque gol sul groppone di Rivera e soci, sotto choc. Ma sembrava tutto inutile, la Juve all’intervallo perdeva a Roma 1 -0. Suonò la carica Altafini, raggiungendo il pareggio col suo nono gol stagionale. E Cuccureddu piegò le mani a Ginulfi con una memorabile legnata. La Lazio perse a Napoli, la Juve si ritrovò campione quasi senza crederci.

L’ESODO DEI 40.000

Anche in virtù di quella sensazionale impresa, il popolo juventino si mobilitò per Belgrado. Quarantamila in marcia per il calcio non si erano mai visti. Voli charter, carovane di pullman, treni, auto private. C’era chi aveva firmato cambiali per esserci, chi aveva lasciato lontani paesini di Puglia e Sicilia per vedere la Juventus per la prima volta. Isolata nel suo tetro maniero, la squadra ignorava quale spasmodica attesa stesse montando attorno alla sua partita.

Vycpalek, o chi per lui, rimescolava le carte. Decise infine di sorprendere l’Ajax con uno schieramento sin troppo offensivo: tre punte, con Altafini in campo dal primo minuto accanto a Bettega e Anastasi, più Causio. Ne fu sguarnito il centrocampo, dal quale venne escluso l’elemento più in forma, Cuccureddu, il fresco uomo-scudetto. Non si rivelò una scelta felice e fu inutile correre ai ripari a latte versato. Anche la rinuncia ad Haller, dall’impagabile esperienza internazionale, non fu una buona trovata. Una Juve presuntuosa sulla carta e spaurita in campo.

All’Ajax bastarono, appunto, quattro minuti. Poi mascherò la sua stanchezza, e il suo goliardico approccio alla gara, con il mestiere e il palleggio. La Juve non si accorse mai che l’Ajax, quell’Ajax, era una tigre di carta. Ne subì il fascino, non seppe mai aggredirla. In sostanza, perse senza giocare, alimentando una leggenda che la voleva irresistibile in patria ma inerme in campo internazionale. Dovette arrivare Trapattoni per abbattere il tabù e lanciare la Juve anche in Europa.

CANTO DEL CIGNO

Per l’Ajax fu il canto del cigno, prima dello smembramento. Davanti a Stuy, Kovacs schierava una difesa a quattro con Suurbier e Krol ai lati, il gigante barbuto Hulshoff e Blankenburg in mezzo. Haan, Neeskens e Gerry Muhren a centrocampo. Due punte esterne, Rep e Keizer, con l’onnipresente Cruijff pronto agli inserimenti centrali. Più che ammirarne le qualità, a Belgrado, bastò intuirle. Bastò il nome ad atterrire una Juventus sbagliata.

30 maggio 1973 – Stadio Stella Rossa di Belgrado”
Ajax-Juventus 1-0
AJAX: Stuy, Suurbier, Hulshoff, Blankenburg, Krol, Neeskens, G.Muhren, Haan, Rep, Cruijff, Keizer. All. Kovacs.
JUVENTUS: Zoff, Marchetti, Longobucco, Furino, Morini, Salvadore, Altafini, Causio (Cuccureddu), Anastasi, Capello, Bettega (Haller). All. Vycpalek
Marcatore: Rep al 4′.
L’azione: cross di Blankenburg da sinistra, una decina di metri fuori dall’area, sulla parabola non arriva Longobucco, salta Rep e colpisce di testa, quasi una palombella lunga e beffarda che sorprende Zoff, invano proteso alla rincorsa.
Arbitro: Gugulovic (Jugoslavia)