Italia rivelazione, Brasile in brutte acque
Dopo il disastro in terra di Germania e le dimissioni di Valcareggi, la guida della nazionale venne affidata al duo Fulvio Bernardini-Enzo Bearzot. Perduta la qualificazione per le finali del Campionato Europeo 1976 in favore dell’Olanda, rinnovati quasi completamente i quadri l’Italia partecipava nel maggio 1976 al «Torneo del bicentenario degli Stati Uniti» con Inghilterra, Brasile ed una rappresentativa della Lega Nord-americana nella quale figuravano Pelé e Chinaglia. Era, quella americana, una tappa di avvicinamento alle qualificazioni per il mondiale, un primo esame del grande lavoro della Commissione Tecnica che aveva vagliato quasi una ottantina di giocatori. Le risultanze furono mediocri, gli azzurri batterono la rappresentativa USA 4-0, ma furono sconfitti dall’Inghilterra 2-3, dopo aver condotto 2-0 nel primo tempo, e dal Brasile 1-4. S’era affermata una nuova leva di calciatori che rispecchiava il dominio juventino sul campionato, i legami con il passato rappresentati da Capello, Bellugi, Facchetti, Zoff, Causio, dal momento in cui era stata decisa la giubilazione definitiva di Mazzola e Rivera.
Per la qualificazione al mondiale l’Italia era stata inserita nel II. Gruppo Europeo con Inghilterra, Finlandia e Lussemburgo, il compito appariva proibitivo perdurando una specie di «inferiority complex» nei confronti del calcio inglese, ma tuttavia Bearzot era riuscito a formare un complesso omogeneo affidandosi alla fresca vitalità di Tardelli e alla voglia di vincere degli juventini, sempre impegnati nella conquista di ogni traguardo che desse prestigio ed onori in moneta. In questa opera di rivitalizzazione del calcio nostrano Bearzot s’era avvalso dell’aiuto interessato di Radice e Trapattoni, i due allenatori-guida della categoria che nel Torino e nella Juventus, avevano applicato i nuovi principi del calcio totale, imboccando la strada dell’eclettismo, del «pressing» e del gioco a tutto campo. La Juventus dominava in campionato e vinceva la Coppa UEFA, il Torino era il rivale più pericoloso, il gioco delle due squadre raggiungeva in molte occasioni valori assoluti e questo dato di fatto non poteva non riflettersi sulla nazionale.
Nel primo incontro decisivo con gli Inglesi, gli azzurri vinsero a Roma per 2-0, il 17 novembre 1976, ma fu nel complesso degli incontri che l’Italia riuscì a qualificarsi segnando più reti e la sconfitta del 14 novembre 1977 allo Stadio di Wembley (0-2) venne assorbita con indifferenza, poiché per andare in Argentina bastava battere il Lussemburgo. A parità di punteggio (10 punti cadauna) l’Italia andava al Mondiale per la miglior differenza reti, 18-4 contro 15-4. Era comunque opinione comune che questa squadra avesse dato il meglio di sé durante la stagione 1977 e che molti giocatori pagassero lo scotto del fantastico campionato 1976-1977 quando la Juventus vinse con 51 punti distanziando il Torino di un solo punto. Il torneo 1977-78, vinto nuovamente dalla Juve, non toccò i vertici del precedente, la squadra di Trapattoni giocò al risparmio per tutta la stagione regolandosi sui bisogni del momento. Dove occorreva pareggiare non si spendeva una stilla in più del dovuto, la resistenza del Torino si era affievolita, il comportamento delle due formazioni guida non alimentava certamente sogni di gloria.
L’ultima partita di preparazione per il mondiale con la Jugoslavia a Roma (0-0), denunciò carenze di preparazione, i giocatori sembravano stremati, asfittici, si invocava a gran voce il nome di Paolo Rossi, che il Commissario Unico non volle impiegare nella serata. Morale: quando la nazionale azzurra partì per l’Argentina una sua vittoria finale era pagata a 200 nelle scommesse e l’accesso al girone di semifinale 40. Quote impossibili che rispecchiavano la sfiducia totale nelle possibilità dei giocatori. L’unico ad aver fiducia incrollabile restava Enzo Bearzot, che appariva ai più come un Don Chisciotte prigioniero dell’ideale. Inserita in un girone di ferro con l’Argentina, la Francia e l’Ungheria, la nazionale azzurra era attesa al debutto con la Francia il 2 giugno.
Vagliate le condizioni dei giocatori, non potendosi avvalere dello squalificato Cuccureddu, Bearzot decise per: Zoff; Gentile, Bellugi, Scirea, Cabrini; Benetti, Tardelli, Antognoni; Causio, Rossi, Bettega. Le incertezze della vigilia risolte in favore di Rossi invocato da tutta la stampa nazionale e di Cabrini, e qui Bearzot mise molto del suo, poiché la stampa sempre importante in momenti simili, propendeva per Maldera, più esperto del giovane della Juve che nel campionato era stato poco impiegato. Ad appena 32″ dall’inizio, Zoff subiva da parte di Lacombe una rete stupenda, scaturita da una azione prolungata di Six sulla sinistra che Gentile non riusciva a fermare, da un centro pennellato per Lacombe che sorprendeva Bellugi ed insaccava. Azione lineare. Formidabile! Gli azzurri non denunciarono smarrimenti morali, presero a macinare un gioco che lasciò esterrefatti gli argentini ed i venticinque milioni di italiani che erano davanti al televisore. Il gol era nell’aria, nelle invenzioni di Paolo Rossi, nell’incredibile efficacia di un Bettega scatenato a mostrare la completezza del suo bagaglio di calciatore, nel gioco battente di Benetti, nelle pirotecniche esibizioni di Franco Causio che mandava in visibilio i puristi argentini. Pareggiò Paolo Rossi al 29′, Zaccarelli (entrato a rilevare lo spento Antognoni) guadagnò il vantaggio al 54′.
C’era da stropicciarsi gli occhi, dopo la prima giornata del mondiale, gli azzurri avevano rovesciato tutti i pronostici ed erano indicati come l’unica squadra che avesse realmente onorato il calcio. Quattro giorni dopo l’Ungheria menomata per le assenze di Nyilasi e Torocsik, venne travolta per 3-1 con reti di Rossi, Bettega e Benetti, e «cabeza bianca», così chiamavano Bettega gli argentini, colpì tre volte i legni della porta di Meszaros. A pari merito con l’Argentina, l’incontro diretto avrebbe deciso della destinazione delle due squadre: la vincente sarebbe rimasta a Buenos Aires, l’altra avrebbe dovuto emigrare a Rosario.
Agli ordini dell’arbitro israeliano Klein, il migliore del mondiale, Italia ed Argentina scendevano in campo in un incontro denso di significati. L’Italia era indicata come la migliore formazione del mondiale, all’Argentina venivano riconosciuti come decisivi i vantaggi del fattore ambientale. La sfida venne affrontata seriamente dai due tecnici che allinearono le formazioni migliori. Italia: Zoff, Gentile, Bellugi (dal 6′ Cuccureddu), Scirea, Cabrini; Benetti, Tardelli, Antognoni; Causio, Rossi, Bettega. E Argentina: Fillol; Olguin, Luis Galvan, Passarella, Tarantini; Ardiles, Gallego, Valencia; Bertoni, Kempes, Ortiz. Davanti a 76.000 spettatori, ammutoliti dalla superiorità tecnica degli azzurri, dalla personalità di una squadra che comandava il gioco a suo piacimento, che si accendeva improvvisamente del genio di Rossi, dell’abilità di Bettega, del movimento instancabile e possente di Romeo Benetti, della fresca vivacità di Cabrini, dell’efficacia di un Gentile superbo che cancellava dal campo Kempes, la tifoseria argentina attendeva il momento della verità che Fillol aveva evitato nel primo tempo con una prodezza eccezionale su tiro ravvicinato di Bettega, ma che non poteva essere ulteriormente procrastinato. Al 67′ Cabrini allunga ad Antognoni che cerca Bettega sulla tre quarti argentina. «Cabeza bianca» si porta in avanti e detta a Rossi un triangolo che «Pablito» è pronto a disegnare con il tacco, la palla è in area sui piedi di Bettega, tiro preciso di destro nel!’ angolo basso alla destro di Fillol colto in uscita. E’ il gol-partita ed è anche il più bel gol del mondiale, l’Italia resterà al River Plate e la vittoria resterà segnata per sempre nel libro d’oro azzurro come una delle più belle di tutta la sua storia.
Poche squadre europee, forse nessuna ha mai vinto a Buenos Aires, le polemiche della vigilia sul gioco a perdere per risparmiare fiato fanno parte di un bagaglio di furbizie che sarebbe meglio dimenticare. Finito il girone di qualificazione s’impone una tregua per cercare di capire cosa è successo in una squadra che sembrava composta da un branco di derelitti ed invece nel fuoco della battaglia si è trasformata in una formazione data a 2-1 per la vittoria finale. Innanzi tutto l’innesto di un fuoriclasse come «Pablito» Rossi: solamente i grandi del calcio hanno la proprietà di trasformare un buon complesso in una grande orchestra e Rossi con la linearità ed il genio delle cose facili c’è riuscito immediatamente più dando che ricevendo, perché certi schemi vanno studiati e con Bettega e Causio non c’è stato il tempo per farlo. Poi Cabrini, una grande realtà, un giocatore da cui si temevano ripercussioni emozionali ed invece ha giostrato con le capacità di un veterano di mille battaglie. Poi Gentile, il grande Bettega che a metà torneo era certamente il miglior giocatore del mondiale, il formidabile Scirea finalmente autoritario, Zaccarelli sempre positivo negli innesti che Bearzot operava per dare respiro, ed il grandissimo Causio che fu definito il più sudamericano degli europei. Ma una parte dei meriti, oltre che a Bearzot ed ai giocatori, vanno riconosciuti anche a Radice e Trapattoni che hanno portato a fine stagione giocatori ancora in grado di esprimersi su livelli fisici ottimali ed hanno fornito a Bearzot elementi in grado di giostrare sui canoni del calcio moderno che non richiede specializzazioni ma giocatori in grado di operare in qualsiasi zona del campo.
Per il Brasile di Coutinho atteso al mondiale come probabile vincitore, che dopo il quarto posto in Germania, aveva vinto il Torneo del «Bicentenario», la Coppa Atlantica ed era stato sconfitto per sorteggio (sic) dal Perù nella corsa al titolo «Sudamericano», le cose cominciarono a complicarsi dopo la vittoriosa tournee europea, una serie di tutte vittorie eccetto con Inghilterra (1-1) e Francia (0-1), quando il «tecnico» comuni- cando la lista dei ventidue aveva depennato giocatori come Luis Pereira e Francisco Marinho, Paulo Cesar Lima ed altri del sempre ricco «carnet» brasiliano. Lo stesso Rivelino aveva corso rischi grossi travolto dalla guerra fra Zico e Dirceu, e da un infortunio che si trascinava da lungo tempo.
Inserita nel gruppo tre con Svezia, Spagna e Austria, la «selecao» debutta malamente con la Svezia. Pareggia 1-1, ma mostra limiti evidenti; con la Spagna si ripete sullo 0-0, ma Cardenosa, attaccante spagnolo, fallisce la più incredibile delle occasioni che avrebbe eliminato i «tri-campeao». Vittoria di stretta misura, risicatissima con l’Austria 1-0 per un gol di Roberto, che Coutinho è stato costretto ad utilizzare per ordini superiori. Il Brasile comunque passa il turno ed andrà a fare compagnia all’Argentina a Rosario, mentre l’Austria vincitrice del gruppo tre per le vittorie sulla Spagna (2-1) e sulla Svezia (1-0) andrà nel girone semifinale che accoglie l’Italia.
Il ritorno del calcio austriaco ai massimi livelli dopo vent’anni esatti di assenza, testimonia dei progressi compiuti recentemente dai viennesi che sono riusciti ad esprimere una generazione di professionisti abituati ai ritmi delle infuocate partite dei campionati tedeschi, belgi, olandesi, ma anche a livello nazionale con Prohaska, centrocampista dell’Austria-Wac che ha raggiunto la finale di Coppa delle Coppe 1978, e del cannoniere Hans Krankl, del Rapid, vincitore della classifica marcatori per quattro stagioni, si sono denunciati nettissimi miglioramenti che fanno ben sperare per il futuro del calcio danubiano.
Analizzati i due gironi più difficili non rimane che ricordare il facile cammino della Polonia e della Germania nel gruppo due con i tedeschi fermati sul pareggio dalla Tunisia e dall’incredibile eliminazione della Scozia in favore del Perù e dell’Olanda nel gruppo quattro. Battuta dal Perù (1-3) dopo aver fallito una incredibile serie di gol, fermata sul pareggio dall’Iran (1-1), la Scozia ha giocato in Argentina una sola partita all’altezza della sua fama, battendo l’Olanda 3-2 e facendo così passare nel dimenticatoio le stravaganze dei rappresentanti dell’isola britannica, colti nell’unico episodio di «doping» del mondiale con Johnstone e salutati più come beoni che come calciatori.