Mondiali 1966: INGHILTERRA

England, England...

Alf Ramsey e moglie… al banchetto della Coppa del Mondo

Al tempo dell’investitura Alf Ramsey era impiegato come “manager” all’Ipswich Town, e pro­prio al “Portman Road”, davanti ugli inviati dei giornali, rilasciò l’orgogliosa affermazione, che vi­sta la situazione del calcio ingle­se, poteva apparire più come un atto di fede che uno slogan stret­tamente ancorato alla realtà. Abbiamo visto i trascorsi della na­zionale «bianca» nella massima competizione: in Cile non era an­data al di là dei «quarti» elimi­nata dal Brasile, in Coppa Euro­pa, nella partita dell’esordio in panchina di Ramsey, una Fran­cia vedova di Kopa, l’aveva umi­liata con uno «score» piuttosto pesante, 5-2.

Giocava ancora a WM l’Inghilterra e non riusciva nemmeno a prevalere nell’«Ho­me Championship», che la Scozia di Law e Gilzean gli imponeva la legge del più forte nel ’62 e nel ’63. L’anno successivo si elevava a parità di punteggio con Scozia ed Irlanda, ma i vincitori morali erano ancora gli scozzesi che all’Hampden Park avevano vinto per 1-0, con una rete di Gilzean. La costante negativa costrinse il manager a cambiare il sistema di gioco che era rimasto legato alla tradizione e per l’incontro dell’8 maggio 1963 con i campioni del mondo in carica, che scendevano a Wembley, con una formazione rinnovata, nella quale era assen­te Pelé per un lieve incidente nel­l’incontro di tre giorni prima ad Amburgo, Ramsey concepì uno schieramento a 4-2-4, secondo i canoni moderni indicati dal Bra­sile 1958 e più lontano nel tempo dalla grande Ungheria. Finì 1-1 con reti di Douglas e Pepe e sull’orizzonte dei bianchi s’era aperto uno spiraglio di luce sotto forma di un notevole migliora­mento sul piano della manovra collettiva.

Ma oltre al rinnova­mento degli schemi di gioco che richiesero uno sforzo non indif­ferente, poiché si trattava di neutralizzare abitudini solidamente radicate nel comportamento dei calciatori sul campo, Ramsey incise anche sulla struttura della formazione, promuovendo Gordon Banks del Leicester come ti­tolare e chiamando sovente Roger Hunt del Liverpool a sosti­tuire Jimmy Greaves, i cui estri mal si conciliavano con le dispo­sizioni severissime che il «ma­nager» affidava ad ogni elemen­to prima di salire sul «ground». Le tappe di avvicinamento dei bianchi all’appuntamento con la «World Cup» erano state or­ganizzate con l’attenzione e la meticolosità con le quali gli in­glesi sono usi ad affrontare le difficoltà.

Ramsey era partito con un programma abbastanza arduo, ma non per questo evitò gli esami più duri, ricercando nelle fa­cili vittorie, l’avallo alle proprie convinzioni e non rifiutò l’invito della CBD che nel 1964, in occa­sione del cinquantenario di fondazione della «Confederacao», organizzò la Coppa delle Nazioni a Rio e San Paolo, chiamando il Portogallo di Eusebio e Coluna, l’Argentina di Rattin e Artime e appunto l’Inghilterra a collaudare la rinnovata «selecao» brasi­liana. Ancora una volta il verdet­to del campo fu negativo: gli in­glesi riuscirono ad impattare con il Portogallo, ma subirono pesan­temente dal Brasile (1-5) e pur riuscendo a limitare lo «score» (0-1) uscirono sconfitti anche nell’incontro con l’Argentina. La squadra che il 23 ottobre 1963 aveva battuto a Wembley il «Rest of World» per 2-1, nel quale fi­guravano tutti i talenti del mon­do da Yaschin a Eusebio, Dyalma Santos, Di Stefano, Puskas, Gento, Kopa Masopust, Law, nei fe­steggiamenti per il centenario della «Football Association», non riusciva a ritrovare quella continuità di rendimento che Ramsey cercava sopra ogni al­tra cosa.

La rinascita inglese co­minciò a delinearsi appena un anno prima del mondiale. Nell’aprile del ’65, un team assai vicino come assetto a quello che trionferà in «World Cup», pa­reggia con la Scozia a Wembley (2-2), poi una serie di vittorie conforta Ramsey sulla giustezza delle sue scelte. Dall’aprile 1965 al luglio 1966 la nazionale «bian­ca» gioca 17 partite; ne vince 12, 4 si concludono in pareggio e so­lamente l’Austria condotta da un Buzek strepitoso la costringe alla sconfitta (2-3) sul terreno di Wembley. Di rilievo la vittoria sulla Germania (1-0) a Norimberga, sul­la Svezia a Goteborg (2-1), sulla Spagna a Madrid (2-0), sulla Sco­zia a Glasgow (4-3) che gli vale un’ipoteca sull’Interbritannico ’66 e ancora sulla Germania (1-0) e la Jugoslavia (2-0) a Wembley. Ramsey ha proseguito con i col­laudi e gli esperimenti, ha co­struito attorno a Bobby Charlton e Bobby Moore, un comples­so omogeneo, che gioca un cal­cio moderno, rapido negli sche­mi e che si avvale di una note­vole spinta offensiva dettata da­gli inserimenti continui sulle fa­sce laterali. Al centro della di­fesa ha piazzato Jackie Charlton, fortissimo nel gioco aereo, coper­to da Moore in fase difensiva e ha trovato in Nobby Stiles, il «brutto anatroccolo», un gioca­tore fondamentale, implacabile nell’anticipo sul migliore degli av­versari.

Sul centrocampo la squa­dra si avvale della fine tessitura di Moore, che dà il là a quasi tutte le offensive affidandole all’estro e al genio di Bobby Charlton, grande figura del Manche­ster United, uscito miracolosa­mente vivo dalla catastrofe aerea di Monaco, dove trovarono la morte diversi compagni dell’United, giocatore dalla vivida intel­ligenza calcistica, autoritario, con un bagaglio tecnico completo, che operava sulla verticale ricopren­do le funzioni che Di Stefano, a suo tempo, aveva esaltato nelle file del Real. Ramsey aveva ri­solto l’equazione dell’attacco affi­dandosi alternativamente al «soc­cer genius» di Greaves e a Ro­ger Hunt, che operavano di pun­ta, ma poi nel corso della partita con la Scozia dell’aprile ’66 (vit­toria 4-3) s’era imposto il trio Hunt-Charlton-Hurst ed il ma­nager inglese aveva intravisto in questa soluzione un maggiore equilibrio ed una maggiore incisi­vità, che il bizzoso Greaves non sempre garantiva. Sulle ali dopo una serie di esperimenti con Pai­ne, Connelly, Tarnbling, all’im­mediata vigilia del mondiale – 5-7-1966 vittoria sulla Polonia a Chorzow, 1-0 – Ramsey aveva in­serito Alan Ball a destra, calcia­tore dal grande temperamento e Martin Peters, un mediano, a si­nistra a svolgere le funzioni di «tornante». Gli ultimi dilemmi erano risolti, Ramsey era convinto di poter di sporre di un gruppo di uomini ben decisi a sfruttare la grande occasione e quando Inghilterra ed Uruguay sbucarono dal sottopassaggio di Wembley il canto dei centomila si tramutò in una invocazione da far tremare le strutture dello stadio: England… England… England…