England, England...
Al tempo dell’investitura Alf Ramsey era impiegato come “manager” all’Ipswich Town, e proprio al “Portman Road”, davanti ugli inviati dei giornali, rilasciò l’orgogliosa affermazione, che vista la situazione del calcio inglese, poteva apparire più come un atto di fede che uno slogan strettamente ancorato alla realtà. Abbiamo visto i trascorsi della nazionale «bianca» nella massima competizione: in Cile non era andata al di là dei «quarti» eliminata dal Brasile, in Coppa Europa, nella partita dell’esordio in panchina di Ramsey, una Francia vedova di Kopa, l’aveva umiliata con uno «score» piuttosto pesante, 5-2.
Giocava ancora a WM l’Inghilterra e non riusciva nemmeno a prevalere nell’«Home Championship», che la Scozia di Law e Gilzean gli imponeva la legge del più forte nel ’62 e nel ’63. L’anno successivo si elevava a parità di punteggio con Scozia ed Irlanda, ma i vincitori morali erano ancora gli scozzesi che all’Hampden Park avevano vinto per 1-0, con una rete di Gilzean. La costante negativa costrinse il manager a cambiare il sistema di gioco che era rimasto legato alla tradizione e per l’incontro dell’8 maggio 1963 con i campioni del mondo in carica, che scendevano a Wembley, con una formazione rinnovata, nella quale era assente Pelé per un lieve incidente nell’incontro di tre giorni prima ad Amburgo, Ramsey concepì uno schieramento a 4-2-4, secondo i canoni moderni indicati dal Brasile 1958 e più lontano nel tempo dalla grande Ungheria. Finì 1-1 con reti di Douglas e Pepe e sull’orizzonte dei bianchi s’era aperto uno spiraglio di luce sotto forma di un notevole miglioramento sul piano della manovra collettiva.
Ma oltre al rinnovamento degli schemi di gioco che richiesero uno sforzo non indifferente, poiché si trattava di neutralizzare abitudini solidamente radicate nel comportamento dei calciatori sul campo, Ramsey incise anche sulla struttura della formazione, promuovendo Gordon Banks del Leicester come titolare e chiamando sovente Roger Hunt del Liverpool a sostituire Jimmy Greaves, i cui estri mal si conciliavano con le disposizioni severissime che il «manager» affidava ad ogni elemento prima di salire sul «ground». Le tappe di avvicinamento dei bianchi all’appuntamento con la «World Cup» erano state organizzate con l’attenzione e la meticolosità con le quali gli inglesi sono usi ad affrontare le difficoltà.
Ramsey era partito con un programma abbastanza arduo, ma non per questo evitò gli esami più duri, ricercando nelle facili vittorie, l’avallo alle proprie convinzioni e non rifiutò l’invito della CBD che nel 1964, in occasione del cinquantenario di fondazione della «Confederacao», organizzò la Coppa delle Nazioni a Rio e San Paolo, chiamando il Portogallo di Eusebio e Coluna, l’Argentina di Rattin e Artime e appunto l’Inghilterra a collaudare la rinnovata «selecao» brasiliana. Ancora una volta il verdetto del campo fu negativo: gli inglesi riuscirono ad impattare con il Portogallo, ma subirono pesantemente dal Brasile (1-5) e pur riuscendo a limitare lo «score» (0-1) uscirono sconfitti anche nell’incontro con l’Argentina. La squadra che il 23 ottobre 1963 aveva battuto a Wembley il «Rest of World» per 2-1, nel quale figuravano tutti i talenti del mondo da Yaschin a Eusebio, Dyalma Santos, Di Stefano, Puskas, Gento, Kopa Masopust, Law, nei festeggiamenti per il centenario della «Football Association», non riusciva a ritrovare quella continuità di rendimento che Ramsey cercava sopra ogni altra cosa.
La rinascita inglese cominciò a delinearsi appena un anno prima del mondiale. Nell’aprile del ’65, un team assai vicino come assetto a quello che trionferà in «World Cup», pareggia con la Scozia a Wembley (2-2), poi una serie di vittorie conforta Ramsey sulla giustezza delle sue scelte. Dall’aprile 1965 al luglio 1966 la nazionale «bianca» gioca 17 partite; ne vince 12, 4 si concludono in pareggio e solamente l’Austria condotta da un Buzek strepitoso la costringe alla sconfitta (2-3) sul terreno di Wembley. Di rilievo la vittoria sulla Germania (1-0) a Norimberga, sulla Svezia a Goteborg (2-1), sulla Spagna a Madrid (2-0), sulla Scozia a Glasgow (4-3) che gli vale un’ipoteca sull’Interbritannico ’66 e ancora sulla Germania (1-0) e la Jugoslavia (2-0) a Wembley. Ramsey ha proseguito con i collaudi e gli esperimenti, ha costruito attorno a Bobby Charlton e Bobby Moore, un complesso omogeneo, che gioca un calcio moderno, rapido negli schemi e che si avvale di una notevole spinta offensiva dettata dagli inserimenti continui sulle fasce laterali. Al centro della difesa ha piazzato Jackie Charlton, fortissimo nel gioco aereo, coperto da Moore in fase difensiva e ha trovato in Nobby Stiles, il «brutto anatroccolo», un giocatore fondamentale, implacabile nell’anticipo sul migliore degli avversari.
Sul centrocampo la squadra si avvale della fine tessitura di Moore, che dà il là a quasi tutte le offensive affidandole all’estro e al genio di Bobby Charlton, grande figura del Manchester United, uscito miracolosamente vivo dalla catastrofe aerea di Monaco, dove trovarono la morte diversi compagni dell’United, giocatore dalla vivida intelligenza calcistica, autoritario, con un bagaglio tecnico completo, che operava sulla verticale ricoprendo le funzioni che Di Stefano, a suo tempo, aveva esaltato nelle file del Real. Ramsey aveva risolto l’equazione dell’attacco affidandosi alternativamente al «soccer genius» di Greaves e a Roger Hunt, che operavano di punta, ma poi nel corso della partita con la Scozia dell’aprile ’66 (vittoria 4-3) s’era imposto il trio Hunt-Charlton-Hurst ed il manager inglese aveva intravisto in questa soluzione un maggiore equilibrio ed una maggiore incisività, che il bizzoso Greaves non sempre garantiva. Sulle ali dopo una serie di esperimenti con Paine, Connelly, Tarnbling, all’immediata vigilia del mondiale – 5-7-1966 vittoria sulla Polonia a Chorzow, 1-0 – Ramsey aveva inserito Alan Ball a destra, calciatore dal grande temperamento e Martin Peters, un mediano, a sinistra a svolgere le funzioni di «tornante». Gli ultimi dilemmi erano risolti, Ramsey era convinto di poter di sporre di un gruppo di uomini ben decisi a sfruttare la grande occasione e quando Inghilterra ed Uruguay sbucarono dal sottopassaggio di Wembley il canto dei centomila si tramutò in una invocazione da far tremare le strutture dello stadio: England… England… England…