Era lui la colla del Brasile 1970; il canale attraverso il quale passava gran parte del gioco. Era lui a orchestrare i compagni, facendoli danzare al ritmo irresistibile della Samba.
Molti ritengono che la squadra brasiliana campione del mondo nel 1970 sia stata forse la più grande espressione di talento calcistico mai vista in un torneo importante. Non solo vantava una schiera ineguagliabile di fuoriclasse, ma sapeva anche offrire spettacolari prestazioni di squadra, in cui l’individualismo lasciava spazio al bene comune; non per spirito collettivista, ma per una gioia e una condivisione che celebravano l’amore per il jogo bonito.
Certo, le stelle non mancavano. Péle è il nome che spicca sempre come il migliore tra i migliori, se si pensa a quella straordinaria generazione del calcio brasiliano. Poi c’era Rivelino; dal tiro micidiale. Tostão guidava l’attacco con eleganza, ma anche con una forza quasi brutale. In quel torneo si affermò anche il giovane talento di Jairzinho, e poi c’era il capitano carismatico, Carlos Alberto, che mise a segno il quarto gol nella finale contro l’Italia, portando la sua ciurma alla gloria e all’immortalità.
C’era però un giocatore che, pur essendo considerato da alcuni il “cervello” della squadra, è spesso, ancora oggi, relegato in secondo piano. Niente potrebbe essere più ingiusto: era lui la colla della squadra; il canale attraverso il quale passava gran parte del gioco. Era lui a orchestrare i compagni, facendoli danzare al ritmo irresistibile della Samba. Parliamo di Gérson de Oliveira Nunes, noto semplicemente come Gérson.
Nato nell’inverno del 1941, il giocatore che, molto più tardi, si meritò il soprannome di Canhotinha de Ouro (piede sinistro d’oro), sembrava nato per diventare un calciatore. Suo padre e suo zio erano giocatori professionisti, e il primo era anche un caro amico del leggendario Zizinho. Un pedigree che avrebbe abbondantemente onorato.
Da ragazzo prodigio, Gérson entrò nel Flamengo, dove le sua abilità si fecero subito notare e venne promosso rapidamente attraverso i vari livelli fino alla prima squadra. La capacità di passare dalla difesa all’attacco con un solo passaggio, o di tenere la palla e controllare il gioco, suggerire e sondare, e sapere quando e come scegliere ed eseguire ogni opzione è un dono raro, concesso solo a pochi “eletti”. Gérson aveva tutte quelle caratteristiche.
Molti lo paragonavano a Didi, il regista della Seleção che aveva trionfato ai Mondiali del 1958. Era il massimo dell’elogio. Non aveva una velocità straordinaria, ma sapeva anticipare le mosse degli avversari con la sua intelligenza tattica. Era la dimostrazione pratica di quella vecchia verità che dice che i primi cinque metri di un giocatore sono nella sua testa. Per mettere in pratica una tale visione di gioco, però, servivano non solo le doti tecniche, ma anche l’autostima e la consapevolezza di possedere il talento necessario. E in questo Gérson non mancava. Era una caratteristica che lo accompagnava anche fuori dal campo, e che avrebbe segnato gran parte della sua carriera.
A meno di un anno dal suo esordio nel club, ebbe l’occasione di mostrare il suo valore su un palcoscenico più grande quando fu convocato per la squadra brasiliana amatoriale che partecipò ai Giochi Panamericani del 1959. L’anno dopo, fece parte della selezione olimpica brasiliana che andò a Roma. Segnò quattro reti, ma il Brasile uscì nella fase a gironi. A quel punto, era evidente sia al club che al ct verdeoro che si trattava di un diamante grezzo, una rarità.
Tornato nel Flamengo a Rio, il tecnico paraguaiano Fleitas Solich affidò a Gérson il ruolo di regista della squadra. Lo stesso fece il ct della nazionale Aymoré Moreira, che lo chiamò in nazionale per i Mondiali in Cile del 1962 a difendere il titolo conquistato quattro anni prima in Svezia. Ma un infortunio al ginocchio gli impedì di partecipare al bis della Seleção e mentre Péle, Garrincha e compagni alzavano ancora la coppa, lui rimase a casa. Non sarebbe stata l’ultima volta che un infortunio frenava la sua carriera.
In quattro anni al Flamengo, il giovane centrocampista disputò oltre 150 partite di campionato, realizzando ben 80 gol. Per un giocatore impiegato principalmente come trequartista era un bottino notevole. Nonostante il successo e l’ammirazione dei tifosi, nel 1963, però, la voglia di Gérson di crescere lo portò a lasciare il club.
L’anno prima, il Flamengo aveva sfidato il Botafogo nella finale del campionato di Rio. Era una partita di alto livello e una chance per il giovane di mettersi in mostra. Ma temendo che Garrincha, l’asso del Botafogo, facesse a pezzi la sua squadra, l’allenatore chiese a Gérson di rinunciare al suo ruolo offensivo e di dedicarsi invece a marcare stretto il temuto avversario.
Per Gérson fu però una missione impossibile. Nessun difensore al mondo era in grado di fermare quel Garrincha, come aveva dimostrato in due Mondiali, e non stupì nessuno – forse solo il suo tecnico – che il suo tentativo di seguire il piano tattico fosse vano. Il Botafogo vinse 3-0, e Gérson non lasciò traccia nel match.
Quel fallimento lo irritò moltissimo, ma non lo sorprese. Lo spinse anzi a rifiutare il rinnovo del contratto con il Flamengo l’anno dopo. Preferì passare dalla parte dei vincitori. Forse pensò: ‘Se non li puoi battere, unisciti a loro!’ E così per due anni giocò al fianco di Garrincha nel Botafogo , finché l’“Angelo dalle gambe storte” non si trasferì al Corinthians.
Andare al Botafogo era il sogno di ogni giovane calciatore brasiliano. Il club era al tempo la squadra più forte del paese. Oltre a Garrincha, c’erano Didi, il giocatore a cui molti paragonavano lo stile di Gérson, Nilton Santos e Mario Zagallo. In mezzo a questi campioni, qualsiasi talento avrebbe potuto esprimersi al meglio, e così fu anche per Gérson. Il club vinse il torneo Rio-São Paulo nel 1967 e nel 1968, e il campionato di Rio nello stesso biennio. Nel 1968 arrivò anche il primo trofeo nazionale, la Coppa del Brasile, conquistata battendo il Fortaleza in finale.
Fu un periodo di forte crescita per Gérson, ma ancora una volta la scena internazionale non gli diede le soddisfazioni che meritava. Il Brasile arrivò in Inghilterra per il Mondiale 1966 con l’obiettivo di fare la tripletta dopo due titoli mondiali consecutivi, ma fallì clamorosamente. Mentre i ragazzi di Sir Alf Ramsey portavano a casa la Coppa, il Brasile mancava la riconferma, tradito un po’ dalla presunzione ma tanto anche anche dalla violenza sconsiderata degli avversari. Anche Gérson non brillò in quel torneo, ma forse era comprensibile. Quattro anni dopo, si sarebbe rifatto.
Intanto nel 1969 Gérson chiuse la sua avventura con il Botafogo e si trasferì al San Paolo. Con il Fogão, in quasi 250 partite di campionato aveva segnato quasi cento gol, confermando quasi tutto lo straordinario bottino realizzativo che aveva portato con sé dal Flamengo.
L’anno successivo, alla sua terza occasione di trionfo in Coppa del Mondo, avrebbe raggiunto l’apice della sua già scintillante carriera nazionale, anche se all’inizio sembrava che i problemi fisici avrebbero potuto di nuovo frenare le sue ambizioni.
In Messico, non c’era alcun dubbio che Gérson partisse titolare nella partita inaugurale del torneo contro la Cecoslovacchia. Poco dopo l’ora di gioco, con il Brasile sul 3-1 dopo aver rimontato uno svantaggio, dovette però abbandonare il campo per infortunio saltando le altre due sfide del girone – contro Inghilterra e Romania – prima di tornare per i quarti di finale contro il Perù. Le due partite che aveva saltato si erano concluse con vittorie risicate, in particolare quella tiratissima contro gli inglesi. Con il centrocampista recuperato, però, la Seleção iniziò a scatenarsi. Una vittoria per 4-2 nei quarti di finale fu seguita da un 3-1 in semifinale contro l’Uruguay.
L’inizio della sfida finale contro l’Italia di Valcareggi fu fulminante: uno straordinario gol di testa di Péle sembrava preannunciare un Brasile travolgente sugli stanchi azzurri, che si erano battuti fino allo stremo in una semifinale epica contro la Germania Ovest.
Ma il pareggio di Boninsegna, su grave errore della difesa verdeoro, aveva scosso la fiducia del Brasile e, mentre la sicurezza dei favoriti pre-partita calava, quella degli Azzurri cresceva. La storia insegna che a volte la squadra migliore del torneo non vince la Coppa del mondo. Basta chiedere agli ungheresi nel 1954, quando la squadra di Sepp Herberger sconfisse Puskas e compagni 3-2 nella finale della Coppa del mondo dopo aver perso 8-3 contro la stessa squadra nella fase a gironi. Il Brasile aveva bisogno di un giocatore che potesse ridare vita al proprio gioco. Qualcuno con la determinazione necessaria per scrollarsi di dosso questo momentaneo calo e issare nuovamente la bandiera verdeoro.
Col passare dei minuti, il Brasile iniziò a riconquistare il dominio del gioco, ritrovando calma e fiducia, e al centro di tutto, spronando, controllando e dirigendo c’era Gérson. Il “cervello” della squadra aveva trovato un modo per riprendere il controllo del match ed era in qualche modo giusto che, appena passata l’ora, fosse proprio il centrocampista a riportare il Brasile in vantaggio. A fine partita, con tanti occhi puntati su Péle e Carlos Alberto, in pochi si accorsero del piccolo centrocampista sopraffatto dall’emozione.
Gerson chiuse poi il cerchio della sua carriera calcistica tornando al Fluminense, il club del suo cuore, dopo 75 presenze con la maglia del São Paulo. Con il Tricolore disputò solo due stagioni, collezionando 57 presenze e cinque reti in campionato, prima di appendere gli scarpini al chiodo nel 1974.
Il tempo e gli infortuni lo avevano ormai consumato. In totale, aveva vestito le casacche di quattro squadre, giocando 533 partite e segnando quasi 200 gol. In nazionale, aveva difeso i colori dei verdeoro per 70 volte segnando 14 reti, nessuna delle quali era stata più importante di quella che aveva ribaltato il risultato nella finale dei Mondiali del 1970.