I più grandi Numeri Uno

Quello del portiere è il ruolo più folle, più romantico e letterario del calcio. Chi gioca tra i pali possiede qualcosa in più, e non soltanto rispetto agli altri giocatori. Viaggio tra i più grandi numeri uno della storia del calcio


ENRICO ALBERTOSI

Flashback sui Mondiali 1970, storica semifinale tra Italia e Germania Ovest, secondo tempo supplementare. Il centravanti tedesco Gerd Müller colpisce di testa su assist di Seeler, sulla linea azzurra c’è Rivera, cui Ricky Albertosi grida imperioso: «Tua!». Il “golden boy”, però, inopinatamente si scansa, il pallone entra in rete e lo stesso Rivera sta cercando di addentare il palo dalla rabbia quando il portiere azzurro, inveendo contro di lui, gli prende il collo tra le mani e sembra volerlo strozzare. Il Gianni nazionale si divincola, trotterella in avanti e va a segnare il gol del definitivo 4-3, sull’azione immediatamente successiva. Enrico Albertosi, il portiere fenomeno della manifestazione, stringe i pugni: l’Italia è in finale. Un traguardo conquistato a suon di prodezze, con voli mozzafiato che ne fanno uno dei più spettacolari guardiani di ogni tempo. E certo uno dei più duri con i compagni, per i quali, a ogni gol subito, si chiamino Rivera o Nessuno, ha sempre pronto un rimprovero a muso duro: «Guai se un portiere si fa prendere dal dubbio di avere sbagliato» spiega. «Una sola certezza deve assisterlo: lui non sbaglia mai, la colpa è sempre degli altri. Così non si abbatte».

Enrico Albertosi era nato a Pontremoli, in provincia di Massa, il 2 novembre 1939 e dopo i primi exploit nello Spezia era passato come enfant prodige alla Fiorentina. Fisico stratosferico, colpo d’occhio eccezionale, riflessi felini e quella facilità di inarcarsi in volo che conquistò subito tecnici e tifosi. Davanti, però, a Firenze aveva Giuliano Sarti, il portiere dello scudetto, antispettacolare per antonomasia, maestro del piazzamento e del calcolo a scapito della spericolatezza. Così si ebbe l’assurdo: Albertosi, precoce e brillante esordiente in A, conquistò presto un angolo di Nazionale, con la partecipazione ai Mondiali in Cile ad appena ventidue anni, ma restava riserva in viola. Finì che se ne andò senza consumare mai appieno quelle nozze: via da Firenze, si ritrovò a Cagliari, per la leggendaria avventura dello scudetto 1970.

Lo sguardo sgherro, il sorriso da simpatica canaglia, l’ostentazione di una beata indifferenza alle regole correnti (gli piaceva fumare e frequentare gli ippodromi), tutto si sublimava nel rendimento sul campo. Quando venne ceduto al Milan, dopo sei stagioni sull’isola, aveva 35 anni e secondo i benedetti stereotipi era destinato al declino. Invece tirò avanti alla grande. Vinse nel 1979, a quarant’anni, lo scudetto col Milan e già si parlava di un possibile, clamoroso ritorno in Nazionale quando lo scandalo delle scommesse lo appiedò per quattro anni. Tornò a riveder le stelle per la vittoria azzurra in Spagna e volle tornare sul campo, stavolta in C2, all’Elpidiense, a far miracoli a quarantatre anni suonati. Chiuse nel 1984, dopo un grave infortunio, il primo della carriera, a un ginocchio. In totale, aveva collezionato 532 partite in A (185 nella Fiorentina, 177 nel Cagliari, 170 nel Milan) e 47 in C2. Con due scudetti, tre Coppe Italia e una Coppa delle Coppe. Più 34 partite in Nazionale, con quattro Mondiali (Cile 1962, Inghilterra 1966, Messico 1970 e Germania 1974).


GORDON BANKS

La tradizione vuole che sia sua la parata più straordinaria di tutti i tempi, noblesse oblige su Pelé. Capitò al Mondiale 1970, i campioni uscenti inglesi affrontavano i futuri successori a Guadalajara, a un certo punto il leggendario “rey” del calcio mondiale salì altissimo, come soleva, a raccogliere un cross di Jarzinho per schiacciarlo dall’alto in basso col suo tipico colpo di testa che equivaleva a un’esecuzione, a un metro dalla linea del gol: dal palo opposto, Banks scattò in un volo prodigioso, arrivando all’altro estremo della porta fino a colpire la palla col pugno mentre stava rimbalzando da terra verso il fondo della rete e ad alzarla sopra la traversa. Si ebbe i compli-menti del grande avversario, che d’altronde non fece poi mistero, assieme a Greaves e Bobby Charlton, di considerarlo “il migliore del mondo”.

Era nato il 20 dicembre 1937 e cresciuto nella rinomata “accademia dei portieri” del Chersterfield, nelle cui file aveva esordito a diciotto anni, per diventare titolare a venti. Riconosceva come maestri Bert Williams del Wolverhampton, portiere dell’Inghilterra dal 1949 al 1956, e il leggendario Bert Trautmann, tedesco, ex prigioniero di guerra, grande numero uno del Manchester City dal 1949 al 1963. Nel 1959 passò al Leicester City.
Esordì tardi in Nazionale, in quanto “chiuso” da Springett. Quando a quest’ultimo fu imputato il tracollo parigino del febbraio 1963 in Coppa Europa (Francia-Inghilterra 5-2), arrivò finalmente il turno di Gordon Banks, che esordì il 6 aprile 1963 a Wembley contro la Scozia, peraltro con un’altra sconfitta (1-2), nella finale del campionato interbritannico. Da allora il posto fu suo e legittimamente, come confermò subendo solo tre reti al Mondiale vittorioso giocato in casa nel 1966.

Agilissimo nonostante la stazza, formidabile nel colpo di reni, aveva colpo d’occhio e senso del piazza-mento, uniti al carisma che ne faceva il leader della difesa. Venne chiamato “Banks of England”, a significare l’aurea sicurezza che rappresentava per la sua Nazionale. La sua fama si estese nel mondo, venne considerato in lizza col grandissimo Jascin per la palma di miglior estremo difensore del mondo. Nella primavera del 1967 passò allo Stoke City, con cui nel 1972 vinse la Coppa di Lega, già conquistata col Leicester.
Chiuse con la Nazionale il 27 maggio 1972 (vittoria in Scozia per 1 -0), con 73 presenze, nel pieno della maturità.

Il 1 ottobre 1972, di ritorno in auto a casa da una seduta col massaggiatore, a seguito di un sorpasso azzardato si scontrò frontalmente con un’altra auto, restando ferito irreparabilmente all’occhio destro, che perse la vista. Si dedicò allora alle giovanili dello Stoke City (nel febbraio 1975 accompagnò al Torneo di Viareggio i suoi deludenti ragazzi). Ma dopo qualche tempo, incredibilmente, cedette al richiamo del campo: riprese negli Stati Uniti, giocando due stagioni (1978 e 1979), pur cieco da un occhio, con il Fort Lauderdale. Un’impresa che alimentò vieppiù la sua leggenda di straordinario fuoriclasse.


GILMAR

Neves dos Santos detto Gilmar, il più grande portiere brasiliano di tutti i tempi, l’unico estremo difensore ad avere vinto due Mondiali, nacque il 22 agosto 1930. Fisico svettante, colpo di reni, agilità da giaguaro, coraggio in area di rigore: questo il suo approccio a un ruolo in Brasile non amato («Il portiere non è un giocatore di calcio»). Gilmar fu presto campione, nelle file del Jabaquara, da dove lo prelevò il Corinthians, con cui conquistò il titolo paulista 1954. Esordì in Nazionale l’1 marzo 1953, ma non venne convocato per i Mondiali 1954. Un anno dopo diventava titolare della Selecão.

Plastico ed elegante, sobrio e corretto negli atteggiamenti, straordinario nel colpo d’occhio, nella presa e nella personalità con cui sapeva guidare alla voce il reparto, divenne presto un leader e un idolo del pubblico. Il trio “de los Santos”, con Djalma e Nilton Santos, divenne una trave portante della Nazionale: 39 incontri giocati, tra cui due finali iridate vinte. Nel 1958 fu gran protagonista del Mondiale svedese, anche se poi ricordava soprattutto il gol subito nell’avvio della finale: «Quel diavolo di Liedholm ne aveva combinata un ‘altra delle sue: finta di qua, finta di là, tiro nell’angolino. Imparabile. Ma non eravamo noi i brasiliani? Quattro minuti e la Svezia già vinceva. Didi raccolse la palla in fondo alla rete e la riportò a centrocampo fischiettando. “Tranquilli, state tranquilli”, disse a tutti noi. Eravamo una banda di incoscienti o sapevamo davvero di essere i più forti? Ancora me lo chiedo…».

Nella sua modestia, a fine carriera si riconosceva un difetto: «Avevo un punto debole: le uscite. E mi allenavo per ore e ore con l’unica… medicina possibile: i cross, tanti cross. Non è facile diventare perfetti nelle uscite, chi ci riesce può dirsi il vero padrone dell’area». Lui lo divenne, impersonando una leggenda vivente del calcio: 100 partite in Nazionale, l’ultima il 12 giugno 1969 a Rio contro l’Inghilterra (2-1), a quasi quarant’anni. Gli chiesero di chiudere col quarto Mondiale, nel 1970, ma rifiutò, temendo di stropicciare il suo sontuoso blasone, arricchito dalle conquiste realizzate col Santos dell’epoca d’oro, il Santos di Pelé, che gli aveva pianto ragazzino sulla spalla al termine della finale di Svezia: due Coppe Libertadores, due Coppe Intercontinentali, dieci vittorie nel campionato paulista, due nel Torneo Rio-San Paolo. Quando chiuse, lasciò il mondo del calcio per occuparsi delle sue concessionarie d’auto (due Fiat e una Chevrolet) e dedicarsi al pallone solo come hobby da giocare con gli amici. Fino al 1985, quando venne operato al cuore. Guarito perfettamente, gli fu vietato dai medici di praticare ancora il calcio.


LADISLAO MAZURKIEWICZ

Il più grande portiere uruguaiano di ogni tempo nacque il 14 febbraio 1945, da padre polacco (ricavandone il soprannome “El Polaco”, il polacco) e madre spagnola. Da giovane si appassionò al basket, ma la ridotta statura e qualità non eccelse sopirono i suoi entusiasmi. Fortuna volle che un osservatore del Racing Montevideo ne avesse notato l’elevazione e la combattività e gli proponesse di provare col calcio. Era il 1962, Mazurkiewicz venne “battezzato” portiere e le sue misure non eccezionali (1,79 per 78 chili) da quel momento non costituirono più un problema, grazie all’agilità, al colpo d’occhio e alla presa ferrea.

Un breve addestramento, il tirocinio nelle giovanili, poi bastarono le prime apparizioni tra i titolari a guadagnarli un’offerta del Penãrol, con cui conquistò al primo colpo il titolo nazionale, nel 1965. Nel 1966 vinse la Coppa Libertadores, figurando come uno dei protagonisti decisivi e conquistando il posto da titolare in Nazionale. Poche settimane dopo, difendeva la porta dell’Uruguay ai Mondiali inglesi e veniva segnalato tra i migliori numeri uno della manifestazione. Formidabile nelle uscite (celebre la sua presa alta), mobilissimo tra i pali, felino nel colpo d’occhio e nello scatto, raggiunse in breve una precoce maturità, confermandosi nella stagione successiva, quando conquistò la Coppa Intercontinentale col Penãrol e la Coppa America con la Celeste; il suo nome circolava ormai nella ristretta cerchia dei migliori portieri del mondo.

Ai Mondiali 1970 era considerato il più forte numero uno del Sudamerica e le sue prestazioni ne attestarono la strepitosa vena, contribuendo a portare la squadra fino alle semifinali, dove il super Brasile degli artisti faticò non poco, riuscendo solo nel finale a far proprio il risultato. Memorabile il duello con Pelé, che riuscì alfine ad aggirare il “mago” Mazurkiewicz, lasciandolo a terra sulla lunetta dell’area, con un fantastico assolo passato alla storia della competizione.

Sicuro di sè, carismatico nel guidare a voce la difesa, Mazurkiewicz divenne un leader assoluto. Le sue prestazioni sulla scena messicana gli valsero il passaggio in Brasile, all’Atletico Mineiro. Giocò anche nel Granada, prima di tornare al Penãrol, in un finale di carriera turbato da una serie di infortuni. Nel 1974 disputò in Germania il suo terzo Mondiale, confermandosi tra i pochi campioni autentici della Nazionale celeste. Con la quale stabilì il primato di 713 minuti di imbattibilità. Con i colori nero-oro del Penãrol, oltre a quattro titoli nazionali (1964, 1965, 1967 e 1968), mise in bacheca il record di 985 minuti senza subire gol.


RICARDO ZAMORA

Cosa avrebbe fatto il calcio senza Ricardo Zamora, detto “El Divino”? Forse avrebbe dovuto trovarsi un posto qualunque dove sbarcare il lunario, ritardando il proprio successo universale. Perché alla leggenda del portiere, così intrinseca al midollo stesso del gioco, Zamora diede un impulso decisivo. Era alto, ma non imponente per il ruolo. Scattava come se il corpo non gli appartenesse e a lui fosse consentito di lanciarlo nel vuoto da ogni posizione. L’armonia dei movimenti si traduceva nel tempismo dell’intervento e nella quasi soprannaturale capacità di “leggere” le intenzioni dell’avversario che fu all’origine del suo soprannome. Si diceva che l’attaccante fosse costretto a tirare senza guardare lui, il divino, che altrimenti l’avrebbe ipnotizzato col suo sguardo magnetico. E leggendo nell’intenzione sarebbe partito all’unisono col tiro per bloccare il pallone.

Venne considerato il più forte portiere del mondo e attorno alla sua figura di “eroe” nacque una leggenda che ne mantiene vivo ancora oggi una sorta di culto come inarrivabile campione. Era nato il 21 gennaio 1901 e ragazzino era emerso nelle file dell’Universi-tari, da cui lo prelevò l’Espanol, buttandolo nella mischia nel 1917, quando ancora portava i calzoni corti. Per sembrare più grosso il giorno del debutto vestì un pesante maglione girocollo e si riparò il capo con un duro cappello basco.

La spettacolarità dei suoi voli, spesso plasmati nell’aria con gusto puro della teatralità, ne fecero un idolo dei tifosi. Esordì in Nazionale a diciannove anni, alle Olimpiadi del 1920, e difese la porta della rappresentativa fino al 1936, totalizzando 46 presenze. Memorabile la sua prestazione contro l’Italia nei quarti del Mondiale 1934, quando le sue prodezze sospinsero la squadra iberica a un passo da una clamorosa vittoria. Ma Ferrari pareggiò e le botte ricevute in partita impedirono a Zamora di essere presente il giorno dopo alla ripetizione, che gli italiani si aggiudicarono prendendo il volo verso la vittoria finale.

Anche ai divini, tuttavia, capita di inciampare e Zamora non dimenticò mai il terribile pomeriggio del 9 dicembre 1931, sull’infido terreno di Highbury contro i Maestri inglesi. Vi giunse con la fama di più grande portiere del mondo e ben sette volte dovette chinarsi allo strapotere di Dixie Dean e soci, che chiusero con un eloquente 7-1. Nel 1919 passò al Barcellona, con cui conquistò due Coppe di Spagna. Quattro stagioni dopo, divergenze di carattere economico gli fecero sbattere la porta. Tornò all’Espanol, vinse un’altra Coppa di Spagna e giocò fino al 1930, quando un favoloso ingaggio lo portò al Real Madrid, di cui fu leggendario guardiano per sei stagioni, chiudendo con le prodezze che nella finale di Coppa di Spagna sbarrarono la strada al Barcellona. Era la seconda Coppa con le “merengues”, che aggiungeva a due titoli nazionali.

Poi, la guerra civile si prese la scena e il Divino riparò in Francia, per due stagioni di prodezze nel Nizza. Nel 1938 si ritirò e tornò in patria. L’anno successivo era manager dell’Atletico Madrid, avviando una nuova carriera, che lo avrebbe portato alla guida dell’Espanol e della Nazionale. È morto l’8 settembre 1978.


VLADIMIR BEARA

Nessun dubbio: “il ballerino” è stato uno dei più grandi portieri di tutti i tempi, gratificato di quel soprannome per i precedenti come ballerino dell’Opera di Belgrado, ma anche e soprattutto per l’agilità e il virtuosismo dei suoi interventi. Dotato di classe purissima per il ruolo, ha scritto il suo nome nella storia del calcio soprattutto per i prodigi compiuti in una celebre partita, giocata il 22 novembre 1950 contro l’Inghilterra e pareggiata inopinatamente (2-2) dalla Jugoslavia, accostatasi al match come vittima sacrificale. Il titolo «Veliki Beara», grande Beara, con cui il giorno dopo i giornali del suo paese ne salutarono le prodezze gli valse un’aura quasi eroica. Negli ultimi minuti in particolare la sua imbattibilità era parsa miracolosa, essendo riuscito a deviare a mani aperte sopra la traversa persino una spaventosa sventola dell’ala Hancocks che aveva tutti i crismi del tiro imparabile. Il pubblico aveva applaudito a lungo, Beara entrava nell’Olimpo dei grandi.

Era nato a Spalato nel 1927 e si era accostato tardi al pallone, in maniera quasi romanzesca. Appas-sionato di calcio, un giorno, a vent’anni, assisteva all’allenamento dell’Hajduk di Spalato quando i giocatori, dovendo provare i calci di rigore ed essendo indisponibili entrambi i portieri, chiesero se qualcuno tra il pubblico avesse voglia di provare a mettersi tra i pali. Vladimir conosceva la propria agilità e non aveva paura di niente: rispose all’invito. Di lì a poco, dopo aver sbalordito con i suoi voli d’angelo, si vedeva proporre un ingaggio. Era il 1948. Due anni dopo, come visto, era titolare in Nazionale, posto raggiunto dopo aver fatto il “secondo” ai Mondiali in Brasile, alle spalle di Mrkusic.

Alto, slanciato, con l’agilità di un gatto, era nato per dare spettacolo, anche per l’audacia al limite della spericolatezza nelle uscite. Quando incontrò l’Italia, in una amichevole a San Siro nell’aprile 1951, potè farsi ammirare solo grazie a una speciale amnistia per meriti sportivi. Era infatti accaduto che, di ritorno da una partita disputata con la Nazionale a Parigi, lui e Mrkusic erano stati fermati dalla polizia jugoslava per contrabbando: avevano con sé parecchie valigie cariche di merce varia. Oltre alle sanzioni del caso, subirono una sospensione di quattro mesi dall’attività. La sua indispensabilità alla causa per indiscutibili meriti sportivi lo salvò. Ai Mondiali in Svizzera nel 1954 fu titolare e strabiliò il pubblico con un prodigioso intervento nel match col Brasile, quando riuscì a gettarsi sui piedi del centravanti Baltazar, ormai a pochi passi dalla rete, ad afferrare il pallone senza toccare l’avversario e a scattare all’indietro in piedi così da evitare il rigore. Titolare anche quattro anni dopo, al Mondiale 1958, chiuse la carriera nella Stella Rossa di Belgrado.


SEPP MAIER

Sventolava nell’aria come un lembo di bandiera. Un guardiano che c’era e bastava saperlo, agli avversari, per aver quasi timore di provare a infrangere quella specie di muro rappresentato dal fisico imponente, dallo sguardo trasparente e dalla mascella forte e ossuta, così tedesca da rimandare nell’immaginario collettivo alla durezza di certe iconografie che hanno fatto la storia terribile di questo secolo.

Joseph Maier, detto Sepp, è stato il più grande portiere del calcio tedesco e uno dei più sicuri della storia del calcio mondiale. Uno scattante custode capace di subire soltanto 75 reti nelle 95 partite giocate con la Nazionale. Nacque a Metten, in Baviera, il 28 febbraio 1944. Portiere lo era già nel fisico secco e lungo, che gli consentiva da bambino di primeggiare tra i compagni di giochi. La sua prima squadra fu il TSV Haar, da dove a quattordici anni si trasferì nelle giovanili del Bayern di Monaco. In quel vivaio si ritrovò nel pieno di una fioritura di eccezionali talenti, con compagni come Beckenbauer e Gerd Müller. A diciotto anni debuttava in prima squadra, diventando rapidamente titolare e partecipando alla irresistibile ascesa del club dalla serie cadetta ai vertici europei e mondiali. Il fisico asciutto (1,83 per 77 chili) e l’elasticità di movimenti ne fanno un agilissimo interprete del ruolo. Soprannominato “Il Gatto”, Maier diventa rapidamente uno dei punti di forza della squadra grazie anche alla tempra fisica indistruttibile: dal 1966 al 1979, per tredici stagioni di fila non salta una partita di Bundesliga.

Impressionante la sua bacheca di successi col club bavarese: quattro titoli nazionali, quattro coppe di Germania, tre Coppe dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Intercontinentale. In Nazionale fa il suo esordio il 4 maggio 1966 in un’amichevole vinta 4-0 con l’lrlanda a Dublino, che gli vale l’inclusione nella lista dei 22 per i Mondiali inglesi, dove resta nell’ombra del titolare Tilkowski, di cui è destinato a superare di gran lunga il primato di presenze nella “Nationalmannschaft” per un portiere, 39. Giudicato incerto dopo i primi incontri in Nazionale, fa ricredere i suoi critici, perfezionando la trattenuta del pallone dopo l’intervento e il senso della posizione, che diventano i suoi punti forti, assieme alla prodigiosa agilità, al piazzamento sui calci di punizione e ai tu per tu con l’attaccante lanciato a rete.

Gioca il Mondiale 1970, vince gli Europei 1972 e il Mondiale 1974, nella sua Monaco, dove le sue sensazionali prodezze nel secondo tempo della finale con l’Olanda hanno un peso decisivo sull’assegnazione del titolo. Memorabile il duello con Neeskens, davanti ai cui tiri si para invariabilmente la grande ombra celeste, invalicabile barriera tra l’ambizione e gli esiti. La sua carriera si interrompe improvvisamente nell’estate del 1979 quando, all’alba di una notte senza luna, si infrange con l’auto contro un lampione, riportando gravi ferite, tra cui la frattura dell’avambraccio destro e una lacerazione del diaframma che gli preclude la continuazione dell’attività agonistica.


ALDO OLIVIERI

A Palazzo Venezia, nella festa del Mondiale 1938, Mussolini gli toccò virilmente la spalla: «So che l’eroe siete stato voi: avete salvato l’Italia». Aldo Olivieri nel primo match, contro la sorprendente Norvegia, aveva parato così bene sul gigante Brynhildsen giunto solo davanti a lui, da indurre l’avversario a fermarsi: «La palla andò a sbattere all’incrocio dei pali: l’avevo appena sfiorata con le dita deviandola in angolo. Prima di battere il corner quel calciatore andò dall’arbitro, gli chiese di fermare il gioco: venne a stringermi la mano».

Aldo Olivieri aveva la grandezza del campione nei mezzi atletici e nei riflessi felini, ma anche nella cura con cui “studiava” il suo ruolo. Sosteneva di aver rubato un segreto alle ballerine: andava a spiare, nelle scuole di ballo, i passi piccoli che non fanno perdere l’equilibrio «e ti sposti che quasi non te ne accorgi». Nella testa, serbava nel ricamo di una cicatrice i segni profondi del suo coraggio di numero uno. Era accaduto il 31 dicembre 1933, al rientro nel Padova da un paio di infortuni a una spalla, in un’amichevole con la Fiumana. L’irruenza di un attaccante su una sua spericolata uscita gli aveva fratturato il cranio. I medici avevano lavorato col trapano per rimettere in ordine ossa e idee e rimandare indietro la nera signora arrivata in anticipo. Era rimasto fermo sette mesi, poi aveva dato un calcio ai consigli dei dottori, ricominciando a darne al pallone.

Per cinquantanni quel buco nella testa, parola sua, lo fece svegliare regolarmente col mal di testa e lo rese sensibile al clima: «In ritiro, quando ero al Torino, andavo dai miei compagni e dicevo: oggi pomeriggio usate i tacchetti lunghi, pioverà. E loro: ma come, c’è il sole. Pioverà, pioverà, lo dice la mia testa. E regolarmente pioveva».
L’uomo della pioggia era nato a San Michele Extra, vicino a Verona, il 2 ottobre 1910, e la prima vocazione l’aveva avvertita per il ciclismo. Alla prima corsa in montagna, però, si era arreso ansimante; gli amici gli avevano chiesto allora di giocare in porta, lui lungo e secco, in un torneo giovanile: «Al debutto presi quattro gol. Allora andai a vedere come si allenavano i portieri e seguii il loro esempio. A fine torneo la mia squadra si classificò seconda e mi diedero la medaglia d’argento come miglior portiere». Aveva trovato la sua strada. Lo prese il Verona, in B, con cui debuttò nel 1929-30, e tre anni dopo passava al Padova, per la sua stagione più sfortunata, otto presenze in tutto e poi convalescenza.

Fu Egri Erbstein, futuro mago del Grande Torino, a volerlo a quel punto alla Lucchese. Era il 1934, due anni dopo esordiva in Nazionale a Berlino, 2-2 con la Germania. Pozzo aveva trovato un degno successore per il grande Combi, Olivieri fu il portierissimo della vittoria iridata in Francia. Subito dopo passò al Torino, quattro stagioni per veder nascere la squadra della leggenda e nel 1942 torna in B, al Brescia. Qualche partita nell’Audace di San Michele, nel campionato di guerra 1944, e poi il ritiro, per avviare una fortunata carriera di allenatore, con Inter e Juventus nel blasone. Morì a Lido di Camaiore il 5 aprile 2001.


PETER SHILTON

La vita, un uomo come Shilton, si può dire l’abbia passata in volo. Da un palo all’altro dell’esistenza, sempre sospeso qualche spanna al di sopra della normalità, sempre col puntiglio della perfezione a strizzare l’occhio come una luna capricciosa. Non si può dire che si sia risparmiato, eppure è riuscito a spremere dalla propria carriera agonistica quanto nessun altro portiere. Detiene il record inglese di presenze in Nazionale (125) e il 22 dicembre 1996, a 47 anni, raggiungeva le 1.000 presenze nella Lega inglese; quel giorno la sua squadra, il Leyton Orient di terza divisione, battè per 2-0 il Brighton. La sua vita sul trapezio l’aveva spesa anche a sperperare i tanti denari guadagnati, facendoli brucare a cavalli da corsa e relativi allibratori.

Peter Shilton, d’altronde, non ha mai amato le mezze misure. Sempre, dal primo giorno in cui è entrato in un club di calcio professionistico, nel settembre 1966 nel Leicester a diciassette anni, non ha avuto che una meta: diventare il migliore. Davanti aveva un bell’esempio, Gordon Banks, e per un po’ ne seguì le orme. Quando Banks lasciò il Leicester per andare allo Stoke City, l’allenatore Matt Gillies non ebbe esitazioni e lanciò Shilton come titolare.

Era nato a Leicester il 18 settembre 1949 e possedeva un fisico possente (1,83 per 86 chili), ma agilissimo. Formidabili le sue prese alte sui calci d’angolo, eccellente la prontezza di riflessi, proverbiale il sangue freddo. Completa la sua interpretazione del ruolo, da grande stratega del reparto difensivo («Si sente un direttore d’orchestra» disse di lui un compagno). Un portiere abituato a trascorrere ore e ore di straordinari sul campo di allenamento per limare i fondamentali e curare la preparazione fisica.

Ecco un altro dei paradossi di Peter la saracinesca: scorbutico e all’apparenza poco socievole, abituato a dilapidare le proprie sostanze negli ippodromi di Sua Maestà, diventava risparmiatore fino alla lesina quando di mezzo c’era il fisico e quindi la possibilità di primeggiare. E se quell’obiettivo di essere il migliore a ogni costo lo rendeva ispido con compagni e avversari, fuori dal campo la sua giovialità era nota quanto tendente a superare i confini. Giocò dieci stagioni a Leicester, poi gli arrivò una ricca offerta dallo Stoke City e accettò. Quattro stagioni senza grandi conquiste prepararono il periodo d’oro. Nel 1977 approdava a una grande squadra, il Nottingham Forest di Brian Clough, con cui avrebbe vinto il titolo nazionale, la Coppa di Lega e due Coppe dei Campioni consecutive. La seconda fu ghermita all’Amburgo in una magica notte in cui Peter Shilton apparve come l’insuperabile uomo dei prodigi.

Dopo cinque anni, complice la disavventura di cui era rimasto vittima (un marito inferocito lo sorprese in auto con la moglie, lui avviò l’auto e cercando di scappare finì contro un lampione) passava al Southampton, contribuendo al secondo posto in campionato nel 1984. Tre anni dopo, eccolo al Derby County e si immaginarono i critici che ormai fosse all’epilogo di una grande carriera. Peter però non ne ha abbastanza.

La Nazionale è la sua droga. Ha cominciato con Banks come maestro e modello, gli ha fatto da dodicesimo fino al ritiro del grande guardiano, per poi trovarsi in competizione con Ray Clemence; ha aspettato che ne tramontasse la stella, mentre lui era sempre lì, con una scattante forza atletica da far valere su compagni e avversari. Ha giocato tre Mondiali (1982, 1986 e 1990), ha fatto il titolare per cinque stagioni nel Derby County, poi è sceso al Plymouth Argyle, e poi ancora a Bolton, Coventry, West Ham United. Fino all’Orient, e a quel record millenario davvero stratosferico.


LEV YASHIN

«Guardai Yashin e mi parve di avere di fronte una figura ingigantita dal colore nero della maglia, una sorta di mostro che invece di mani e piedi protendeva tentacoli. Un senso di soggezione, come un lampo di passaggio, poi il fischio dell ‘arbitro e il tiro, mentre scorgevo Jascin gettarsi a chiudere la porta sulla destra, proprio là dove avevo indirizzato la palla… Là dove luì aveva “voluto ” che io tirassi il rigore. Aveva rimpicciolito la porta, mi aveva stregato»: così Sandro Mazzola fallì il penalty il 10 novembre 1963, all’Olimpico contro l’Urss, sbattendo contro la gigantografia del più grande portiere di tutti i tempi.

Era un leone (Lev in russo), ma lo chiamavano “il Ragno nero” per la divisa sempre scura e le braccia interminabili, per le mani a ventosa e le gambe elastiche che facevano scattare gli 83 chili per 1,88 di altezza del suo fisico imponente. Sull’avversario a pochi metri era capace di volare da fermo da una parte all’altra della porta, seguendo l’intuizione e dandole corpo. La sua sagoma minacciosa riusciva a “chiudere” i pali all’attaccante, impedendogli di farne i punti di riferimento del tiro. Possedeva un innato senso della posizione e lo sguardo magnetico che imprigionava l’avversario nella tela vischiosa della paura di sbagliare.

Lev Yashin era nato a Mosca il 22 ottobre 1929 e a dodici anni, scoppiata la seconda guerra mondiale, aveva trovato lavoro in fabbrica come aggiustatore apprendista, quando l’arrivo come operaio di Vladimir Mihailovic Cecerov, ex atleta costretto al ritiro dall’attività da un grave infortunio, promosse l’attività sportiva all’interno del complesso. Cosi Yashin divenne portiere, di calcio e di hockey su ghiaccio. Poi la guerra finì, il leone scelse il pallone di cuoio e si ritrovò alla Dinamo Mosca. Nel 1953 era titolare in prima squadra, nel 1954 contro l’India esordì in Nazionale, nel 1956 assurse a fama mondiale vincendo le Olimpiadi di Melbourne. Quattro anni dopo, il pubblico del Parco dei Principi lo portava in trionfo dopo il successo sulla Jugoslavia nel primo Europeo per nazioni.

Partecipò a quattro Mondiali (dal 1958 al 1970), conquistò cinque titoli nazionali (’54, ’55, ’57, ’59, ’64) e il Pallone d’Oro 1963 (unico portiere della storia). Divenne un eroe popolare in tutto il mondo. Il 27 maggio 1971 allo stadio Lenin di Mosca difese per l’ultima volta la porta della Dinamo in una partita contro il Resto del Mondo. Divenne dirigente della Dinamo, ma la vita pretese il conto, con una emorragia cerebrale nel 1982 e poi la paralisi e l’amputazione della gamba destra. Morì appena compiuti i 60 anni, per un tumore allo stomaco.


GIAMPIERO COMBI

I compagni di collegio lo avevano soprannominato “fusetta”, petardo, per il suo spirito pirotecnico, non immaginando di anticipare le doti esplosive di un portiere tra i massimi della storia del calcio. Allora, d’altronde, Giampiero Combi spezzava il primo pane del pallone in piazza d’Armi a Torino nel Savoia come ala sinistra. Vuole però la leggenda che fosse sua cura fissare a ogni gara sul prato i pali della porta, custoditi nel cortile di casa. E che poi Carlo Bigatto, mediano della Juventus, gli suggerisse di estendere la vocazione alla copertura del ruolo.

Giampiero Combi, nato nel capoluogo piemontese il 20 novembre 1902, possedeva un fisico ai limiti dei canoni del portiere: alto appena 1,71 per 70 chili di peso, compensava con una straordinaria capacità di elevazione e l’istinto al miglior piazzamento tra i pali. Nel 1920 si presentò al talent scout e giocatore juventino Guido Marchi, che gli concesse un provino, superato a pieni voti. Esordì in prima squadra il 5 febbraio 1922 a Milano, diventando subito titolare. Il padre possedeva una azienda di liquori, in cui presto lo stesso giovane Giampiero si impiegò, restando calciatore dilettante. Nel 1926, tuttavia, l’offerta del padre di trasferirsi in Sudamerica a curare l’esportazione dei prodotti di famiglia lo fece vacillare. La Juventus scongiurò il pericolo offrendogli un robusto contratto da professionista.

Da quel momento, Combi diventò Combi. Un portiere già bravo, che il puntiglio professionale portò vicino alla perfezione. «Era continuo, costante, regolare» ricordava Vittorio Pozzo «e ammetteva i suoi difetti, e da essi si curava. Alle Olimpiadi di Amsterdam, nel ’28, fu battuto da un paio di tiri spioventi per la tendenza a piazzarsi un pò avanti, rispetto alla linea della sua porta: rimuginò, masticò amaro, e nell’errore non ricadde più in seguito». Combi divenne “il” portiere: nella Juventus e nella Nazionale il suo stile sobrio, tutto basato sul razionale calcolo del piazzamento, divenne sinonimo di sicurezza a prova di bomba, iscrivendolo nel ristretto circolo dei grandissimi dell’epoca. Aveva carattere forte, anche coi compagni: «A Viri Rosetta, restio al giuoco di testa» scrisse Pozzo, «lasciava andare duri cazzotti che il compagno incassava borbottando».

Conclusa la sua vita di calciatore, Combi diventò dirigente. Il suo giudizio era competente e ponderato, fatto di tanto buon senso e tanta esperienza. Mai un apprezzamento azzardato, mai una valutazione che non fosse ben pensata. Nel consiglio direttivo della Juventus portò la sua saggezza, la sua onestà. Venne anche chiamato alla direzione della squadra nazionale con Busini e Beretta in un periodo agitato della vita calcistica. La morte lo coglie nel 1956 mentre cooperava con Umberto Agnelli a risollevare i destini della Juventus: anche grazie a lui ed ai suoi preziosi servigi, la squadra bianconera rivedrà, in poco tempo, le stelle.


JAN JONGBLOED

Jan Jongbloed è stato uno dei più singolari portieri della storia del calcio. Nato il 25 novembre 1940, è calciatore solo per diporto: nel DWS e poi nel FC Amsterdam. Ha un unico momento di effimera gloria: il 26 ottobre 1962 debutta in Nazionale, a Copenaghen, subentrando a Lagarde a cinque minuti dalla fine. Gli arancioni perdono 4-1, Jongbloed torna nell’anonimato, da cui emerge solo dodici anni dopo, quando, qualche settimana prima del Mondiale 1974, in un’amichevole con l’Argentina, il Ct olandese Rinus Michels lo prova e resta a tal punto soddisfatto da promuoverlo titolare, davanti a Schrijvers del Twente e Treytel del Feyenoord. Una sorpresa per tutti. Si scopre che la sua passione primaria è la pesca, poi viene il calcio, e che integra il contratto da semiprofessionista gestendo una tabaccherìa di Amsterdam.

Ha colpito Michels la sua singolare abitudine a giostrare fuori dalla porta, grazie alla disinvoltura del tocco di palla coi piedi. E siccome dopo la rinuncia di Hulshoff il grande barbuto dell’Ajax, e l’indisponibilità di Mansveld e Drost il Ct ha deciso di arretrare a pilota della difesa Arie Haan, centrocampista di molo, gli viene comodo un portiere capace in pratica di fare il libero, a costo di rischiare brutte figure. Ai Mondiali qualcuno ride, per i suoi talora goffi recuperi. Ma alla resa dei conti Jongbloed subisce in tutta la manifestazione solo tre gol, un’autorete di Krol contro la Bulgaria e i due contro la Germania in finale, il primo dei quali su rigore di Breitner. Molti lo snobbano, qualcuno lo esalta, e al termine del Mondiale il vicecampione del mondo Jongbloed decide di fare davvero il calciatore. Passa al Roda, allunga i tempi di allenamento trascurando la tabaccherIa.

Conquista così un altro Mondiale e gioca la sua seconda finale, a 38 anni, perdendo contro l’Argentina. La sua carriera è ben lungi dall’essere chiusa. Batte il record di presenze nella massima serie olandese, ma quando sta per toccare i 45 anni viene fermato dalla sfortuna: nel settembre del 1985, durante un allenamento con la sua squadra, il Go Ahead Eagles, il “portiere volante” viene colpito da infarto. Supera la crisi, ma deve smettere di giocare. La sfortuna aveva già colpito il portierone olandese: un anno prima, nel 1984, suo figlio ventenne, calciatore lui pure, era stato ucciso da un fulmine durante una partita.

Non è stato un grandissimo portiere, d’accordo, ma a modo suo Jan Jongbloed, tabaccaio part-time, comunista, amante della birra, delle sigarette e del gentil sesso, portiere che parava a mani nude perché i guanti, a suo dire, non gli permettevano di bloccare bene la palla e che finì per disputare, quasi per caso, due finali mondiali, ha segnato un’epoca e sarà sempre ricordato da tutti gli amanti del calcio con quella maglia giallo numero 8 invece che con il classico numero 1, a sottolineare l’intercambiabilità e la volontà di svincolarsi dai ruoli classici.


DINO ZOFF

È quasi una beffa che la palma del miglior estremo difensore di ogni tempo tocchi in Italia a un signore che ha faticato tutta la carriera per spiegare che i portieri possono anche non essere matti, ma ticchettare come perfetti marchingegni meccanici. Zoff è stato il più grande fin, si può dire, dal cognome tronco che pare già in volo a parare un destino importante. Fin da quando buscò cinque gol dalla Fiorentina all’esordio in A e non era che un ragazzo che andava al campo con la corriera, il ragazzo contadino che lavorava come motorista in un’officina e amava il pallone ma anche l’odore di grasso e benzina emanati dai motori bisognosi di una mano amica. Tutta l’eccezionalità della sua carriera si condensa nell’esercizio ostinato della normalità.

Niente voli angelici e spettacolari, niente uscite a sfracellarsi su un emozione, ma soltanto lo stretto indispensabile e quel fisico curato con l’amore di un meccanico per la sua creatura. La normalità Dino Zoff la portava raccontata in volto da un solco di riserbo, sempre in bilico tra la malinconia e un sorso di fatica, il mestiere di portiere costruito nelle interminabili sedute extra di allenamento, per rendere normale anche la parata più difficile, il volo più arduo. Così è impossibile ricordare un lampo tra i pali, una scheggia che vola impazzita dalle sue memorie per consegnarsi come la più grande delle sue parate. Mentre è normale ricordare i suoi primati. Dal 1972 al ritiro, 332 presenze consecutive in A, 2 nel Napoli e 330 nella Juve, tutti gli 11 campionati in bianconero giocati senza interruzioni.

Per 21 anni restarono primato assoluto anche i 903 minuti di imbattibilità, dal 3 dicembre 1972 al 18 febbraio 1973, poi superati da Seb Rossi. E valgono ancora il record di imbattibilità in Nazionale, 1.144 minuti, dal 1972 al 1974; e quello in Coppa dei Campioni, 399 minuti nel 1972-73. Tuttora insuperato pure il numero di partite in A: 570 (cui vanno aggiunte le 74 in B, le 110 in Coppa Italia e le 87 nelle Coppe internazionali). E ancora, le 110 partite in Nazionale. Dal 24 settembre 1961, Fiorentina-Udinese 5-2, al 15 maggio 1983, Juventus-Genoa 4-2, è racchiusa una serie infinita di successi: con la Nazionale, un titolo di Campione del Mondo e uno di Campione d’Europa. Con la Juventus, 6 scudetti, una Coppa Uefa e 2 Coppe Italia. Dino Zoff nasce a Mariano del Friuli (Gorizia) il 28 febbraio 1942.

Comincia nell’Udinese, dove a onta di una profezia avventata dell’allenatore Eliani («Senti Zoff se te diventi un jogador, me tajo i cojoni») e del debutto disastroso («Per anni molti mi salutarono con la mano aperta, a indicare i cinque gol subiti»), si rivela presto un campione in erba. Stravedono per lui il presidente Bruseschi e l’allenatore Bonizzoni. Nel 1963 quest’ultimo lo vuole al Mantova, dove gioca fino al 1967, quando il Milan di Luigi Carraro arriva a un passo dall’acquisto, poi se lo fa soffiare dal Napoli. Nel 1968 esordisce in Nazionale, vincendo il titolo continentale. Nel 1972 è alla Juve di Boniperti per la lunga cavalcata destinata a interrompersi solo sulla sconfitta in Coppa dei Campioni contro l’Amburgo. Quando il Monumento (finito sulla copertina di Newsweek e sul francobollo disegnato da Guttuso per aver vinto il Mondiale a 40 anni), decide di lasciare, diventando allenatore e dirigente di successo.


RINAT DASAEV

Musulmano di Astrachan, città nei pressi del Mar Caspio distante circa 1300 chilometri da Mosca, Rinat Dasaev è sempre stato costretto a nascondere la propria fede. L’ha sepolta sotto centinaia di parate, l’ha celata dietro uno stile in cui mescolavano alla perfezione atletismo e tecnica, l’ha occultata all’interno dell’immagine di erede della leggenda sovietica Lev Jašin.

Sarebbe stato imbarazzante per il Partito sapere (e soprattutto far sapere) che era un credente e un praticante l’uomo che difendeva i pali dello Spartak Mosca (cinque titoli nazionali) e dell’URSS, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Mosca del 1980, il frutto migliore della generazione d’oro targata Valeri Lobanovski, colui che nella finale dell’Europeo ’88 si sarebbe piegato solo di fronte a una meraviglia di Marco van Basten. Poi, quando tutto stava crollando, Dasaev se n’è andato a monetizzare gli ultimi scampoli di carriera al Siviglia, senza però ambientarsi; allora è tornato a casa, libero finalmente di non doversi nascondere più.


JEAN-MARIE PFAFF

Carismatico, bizzarro, geniale, ma contestualmente freddo come un punteruolo di ghiaccio una volta infilati i guantoni; in poche parole le due facce di Jean-Marie Pfaff, immagine pubblica da clown, professionista esemplare sul terreno di gioco. Da zero a mito, dalla roulotte parcheggiata ai lati della piazza principale di Anversa (dimora della sua famiglia, venditori itineranti di professione) ai fasti della nazionale. Finale dell’Europeo 1980, quarto posto a Mexico ’86 dopo prestazioni da leggenda contro URSS (4-3 agli ottavi) e Spagna (eliminata ai rigori nei quarti). Il miglior Belgio di sempre grazie al più forte numero uno della sua storia. Insuperabile nelle giornate più ispirate, incubo ricorrente dei rigoristi e della lingua tedesca, maltrattata a più riprese con una sorta di miscuglio fiammingo-germanico entrato nella storia sportiva e di costume del paese. Tre campionati e due Coppe di Germania con il Bayern Monaco, un titolo e una coppa nazionale con il Beveren, provinciale belga da cui tutto ha avuto inizio. Lo chiamavano “fatty”, giocava in porta perché non c’era altro posto dove mettere quel ragazzino discretamente sovrappeso.


FRANTISEK PLANICKA

Il Gatto di Praga, trofei a go-go in patria (otto titoli nazionali, sei coppe), una finale Mondiale persa di fronte a un altro fuoriclasse dell’epoca, il numero uno degli Azzurri Giampiero Combi, un acuto europeo (la Mitropa Cup nel 1938), una sportività pari solo alla classe mostrata tra i pali della porta. Per passare il turno ai Mondiali del ’38 i brasiliani dovettero rompergli un braccio; lui rimase in campo per 120 minuti mantenendo l’1-1, poi non poté scendere in campo nella ripetizione.
A Torino invece i tifosi della Juventus lo colpirono con una pietra; lo Slavia Praga si ritirò per protesta e fu squalificato. Aveva vinto l’andata (si giocava la semifinale della Mitropa Cup anno 1932) 4-0.


PETER SCHMEICHEL

Segni particolari: assoluta mancanza di modestia. Ma questo figlio di un pianista jazz polacco e di un’infermiera danese se lo è sempre potuto permettere grazie al suo smisurato talento. Nessuna paura, mai. A 21 anni, giovane emergente con la maglia del Hvidovre Køpenaghen, dichiara pubblicamente che Ole Qvist, all’epoca considerato il più forte portiere danese, gli è inferiore di un’abbondante spanna. Nella stagione 90/91 porta il Brøndby fino alle semifinali di Coppa Uefa.

Nel 92/93 festeggia 22 partite di Premier League concluse con la porta inviolata e soprattutto un titolo nazionale che in casa Manchester United mancava da 26 anni. Seguiranno altri quattro scudetti (più un altro in Portogallo a fine carriera con lo Sporting Lisbona), tre FA Cup, una Coppa Campioni e una Supercoppa Europea. Ciliegina sulla torta, il sorprendente Europeo vinto nel ’92 con la Danimarca, nazionale con la quale vanta 129 presenze e un gol all’attivo, segnato nel 2000 al Belgio su rigore.


JAN TOMASZEWSKI

Maglia gialla, calzoncini rossi, calzettoni bianchi, capelli lunghi e arruffati. Un clown, secondo il ct dell’Inghilterra Ramsey alla vigilia di Inghilterra-Polonia, 17 ottobre 1973, incontro di qualificazione per i Mondiali del ’74 che i britannici dovevano assolutamente vincere. Un giocatore con poca personalità a detta del Legia Varsavia, massimo club nazionale, che lo aveva ceduto senza alcuna remora al piccolo LKS Lodz. Un portiere poco affidabile, commentava la stampa polacca, che due anni prima aveva esordito in nazionale, Polonia-Germania Ovest 1-3, a suon di papere. La vittima perfetta, insomma.

Non quel giorno però, e non in quello stadio, il mitico Wembley. La partita finisce 1-1, Jan Tomaszewski annienta giudizi e pregiudizi, oltre che le speranze dell’Inghilterra intera, con una dozzina di super-interventi. La Polonia va ai Mondiali, dove arriverà terza, con il nostro capace di parare due rigori in due diversi incontri. Medaglia d’argento nel ’76 alle Olimpiadi di Montreal, il regime comunista polacco gli permetterà di lasciare la Polonia solo dopo i 30 anni, per un più remunerativo finale di carriera in Belgio e in Spagna.


MICHEL PREUD’HOMME

Dicono che in carriera abbia vinto poco. Vero, ma lo ha fatto con la maglia del Malines, il piccolo club fiammingo capace di arrivare sul gradino più alto del campionato belga e dell’Europa minore, leggi la Coppa delle Coppe e la Supercoppa Europea. In Coppa Campioni si fermarono invece ai quarti di finale contro il Milan di Marco van Basten, che però ci mise 120 minuti per far crollare il muro eretto dal numero uno vallone, mostruoso per riflessi e senso della posizione tra i pali. Un miracolo, quello del Malines, ancora oggi nel cuore dei nostalgici degli anni Ottanta.
Poi tanta nazionale belga (miglior portiere a Usa ’94) e numerose stagioni al Benfica, ma la bacheca rimane vuota (escludendo i successi di inizio carriera con lo Standard Liegi). Un peccato mortale per la gretta accolita del “cos’ha vinto?”.