Mondiali 1986: ARGENTINA

La grande illusione

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Fin dalla notte dell’11 luglio 1982, illuminata da un intero Paese chiassosamente in festa, fu chiaro che nulla sarebbe stato più come prima. Magari a gioco lungo Bearzot avrebbe finito col pagare il suo “peccato” (la vittoria contro tutto e tutti), come infatti puntualmente accadde, ma il mestiere di critico della Nazionale, per contrappasso, avrebbe imboccato sentieri aspri e irti di insidie. Da quel momento in poi, la spada di Damocle della “vittoria impossibile” fece regolarmente ombra ai commentatori, nel cui imbarazzato (e colpevole) silenzio affondarono lentamente i campioni del Mondo, sorbendo il calice amaro del declino fino all’ultima stilla.

Enzo Bearzot chiuse l’anno mondiale con due risultati in qualche modo emblematici: sconfitta in casa con la Svizzera, la prima della storia, uno 0-1 all’Olimpico già significativo del logorio, se non altro mentale, degli “eroi” di Spagna, gratificati di una passerella risoltasi in un fiasco. Poi, il pareggio interno (2-2) con la Cecoslovacchia, esordio nelle qualificazioni europee accompagnato da pesanti malumori. Poi, la diatriba tra Bearzot e il presidente della Figc, Sordillo: solo dopo pesanti polemiche, avviate nella circostanza, il Ct riuscì a ottenere la conferma quadriennale richiesta, cioè la garanzia della futura difesa del titolo, il minimo dovuto a un Ct fresco campione del mondo. E poi, piccole guerre di corridoio, i suoi collaboratori umiliati da stipendi da parastato mentre nuovi arrivati venivano ricoperti d’oro dalla Federazione campione del mondo. Così Bearzot cominciava a pagare il fio, e non si sarebbe fermato più.

Sulla via dei campionati europei 1984, assegnati alla Francia, l’Italia trovava, oltre alla Cecoslovacchia, anche Romania, Svezia e Cipro. Il 4 dicembre a Firenze fu appunto di scena la squadra allenata da Mircea Lucescu e il nulla di fatto che riuscì a strappare chiarì in quale clima internazionale l’Italia avrebbe dovuto difendere il proprio blasone. Gli avversari aggredirono il match e soprattutto le gambe degli azzurri, sotto gli occhi socchiusi di un arbitraggio scandaloso. Ciò non toglie peraltro che il piatto dell’attacco avesse pianto lacrime amare, rivelando l’impellente problema della sterilità offensiva. Come rimedio, vennero (cautamente) proposti due nomi: Bruno Giordano, tornato a giocare alla grande a seguito dell’amnistia, e il sempiterno Roberto Bettega, risorto dalle ceneri del grave incidente.

Che i nemici di Bearzot continuassero a masticare amaro, era comprensibile. Il 1982 si chiudeva per la Nazionale col significativo bilancio di appena quattro vittorie su tredici partite. Ma erano state le più importanti: Argentina, Brasile, Polonia, Germania Ovest. Cioè lo stretto necessario per il titolo mondiale.

Il 12 febbraio 1983 la Nazionale volava a Cipro con l’obiettivo di rompere il digiuno del dopo-Mundial e risanare con una rigenerante goleada il magro bilancio continentale. Ma non riuscì a cogliervi che un umiliante pareggio, 1-1: priva di mordente, aggrappata al conservatorismo spinto del suo tecnico (privato di Conti, non trovava di meglio che ricorrere al trentaquattrenne Causio), raddrizzò il risultato solo grazie a un autogol. Timidamente, qualche critico provò a rialzare la testa: non avevamo torto, protestò tra le righe, Madrid è stata una folgorante eccezione, Cipro la trista regola di una Nazionale sbagliata.

A Bucarest, il 16 aprile, per il ritorno coi rumeni, Bearzot recupera Bettega, in procinto di partire per il Canada, dove chiuderà la carriera agonistica. Inutile pretendere rispetto almeno per i capelli bianchi dell’ex leader juventino; gli avversari ci picchiano senza pietà, infilandoci con un tiraccio di Boloni: 1-0. L’ultima spiaggia si chiama Svezia, a Goteborg, il 29 maggio. La contemporaneità con la finale di Coppa dei Campioni (Juventus-Amburgo ad Atene tre giorni prima) ci si augura imponga a Bearzot una decisa riverniciata alle pareti. Illusione.

Il Ct ricostruisce la formazione del Sarrià, il morale degli juventini, affondati da Magath il mercoledì, non è alle stelle, il gioco e il mordente appartengono ai ricordi. Le buschiamo per 2-0 e a quel punto la distruzione del mito è completata. Non abbiamo più una Nazionale, ma solo un pieno di ricordi. Dino Zoff lascia il calcio giocato, gli azzurri abbandonano le ultime possibilità di approdare agli Europei. Poche settimane dopo, il 12 agosto 1983, muore, in un incidente d’auto nella sua Toscana, Artemio Franchi. Il destino non avrebbe potuto scegliere un modo più tragico per chiudere un periodo felice del nostro calcio. Unico grande dirigente del calcio azzurro del dopoguerra, Franchi lascia un vuoto che ancora oggi nessuno è riuscito a colmare.

L’operazione Messico 1986 viene lanciata da Bearzot aprendo le porte al tanto sospirato rinnovamento. “Per due anni giudicherò in base alla carta d’identità. Ma alla vigilia dei Mondiali la carta d’identità sarà stracciata e saranno i migliori o comunque i più affidabili a difendere il titolo conquistato a Madrid”. Parte la stagione azzurra 1983-84 e il Ct spiega come sia stato suo dovere inseguire la qualificazione europea con i vincitori del Mondiale; ora, conclude, la festa è finita.

Il nuovo corso viene inaugurato nella notte delle grandi illusioni, a Bari, dove una squadra azzurra inedita coglie un significativo 3-0 sulle ali di un gioco spumeggiante, ancorché contro un avversario non proprio granitico. Bearzot manda in campo una formazione agile e leggera, con Bordon in porta, Bergomi e Cabrini terzini, Vierchowod stopper e Baresi libero; a centrocampo, l’ex ala Bagni, felicemente trasformato in mediano nell’Inter, Conti tornante, Ancelotti e Dossena interni; in avanti, i guizzanti Rossi e Giordano. Tanto felice riesce la serata, da attizzare più di un rimpianto, specie per l’autolesionistico “congelamento” di Giordano, per motivi morali, fino al termine “vero” della squalifica, nonostante l’amnistia. Oltre al centravanti della Lazio segnano Cabrini e Rossi. Rinnovamento, ma nel segno della continuità.

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Le illusioni durano appena dieci giorni. A Napoli i successori degli eroi di Spagna vengono travolti per 3-0 da una Svezia di onesti granatieri. Come non detto. Un mese dopo, altra bastonata a Praga, nel ritorno con la Cecoslovacchia, che ci batte 2-0, anche a causa di alcune scelte quantomeno singolari (il “baby” romanista Righetti promosso vice Scirea). La critica non infierisce, un singolare slogan — “il risultato non conta”— diventa il simbolo di questo rinnovamento a rovescio, in cui la squadra va smarrendo la via di una dignitosa identità tecnica. Mentre il campionato vive momenti esaltanti, con il brasiliano Zico a folleggiare e un nuovo duello Juventus-Roma sugli scudi dello spettacolo, la squadra azzurra si arrampica sul suo calvario. Non le è da meno l’Olimpica di Cesare Maldini, che il 9 novembre le busca dalla Jugoslavia (1-5 a Fiume) e ruzzola fuori dai Giochi in programma a Los Angeles l’anno dopo.

Le formalità europee si chiudono con un quasi inevitabile successo su Cipro (3-1) a Perugia a ridosso di Natale: Bearzot piazza Franco Baresi in mediana (e si capisce che non è il caso) e il fiorentino Galli in porta. Si chiude un anno disastroso per la Nazionale, che ha davanti un lungo limbo privo di impegni agonistici, essendo qualificata di diritto per la prossima Coppa del Mondo quale detentrice. L’esperimento di Baresi mediano dura ancora un paio di partite, prima che i riflessi del Ct decidano di entrare in azione ponendovi fine. C’è un rotondo 5-0 al Messico all’Olimpico ai primi di febbraio, con tripletta di Paolo Rossi, sempiterno termometro delle nostre ambizioni, e ritorno in pompa magna dell’accantonato Scirea nel ruolo di libero. E poi un 2-1 alla Turchia in marzo, a sigillare l’infelice parentesi del kaiser Franz del Milan. La stagione prevede ancora un pari (1-1) contro la Cecoslovacchia a Verona e la puntuale sconfitta (0-1 con la Germania Ovest a Zurigo) non appena la sfida propone qualche connotato agonistico (celebrazione dell’80. della Fifa).

La tournée americana del giugno 1984 (discreto 2-0 al Canada a Toronto, squallido 0-0 con una selezione statunitense al Giants di New York) è tutta nel segno di Roberto Mancini, diciannovenne asso della Sampdoria. Il quale vi fa il proprio esordio in maglia azzurra, ma rimedia anche, con una scappatella notturna nella tentacolare Manhattan, una definitiva bocciatura “morale” di Bearzot.

Un’altra stagione di amichevoli, con poche gemme. Questo propone il 1984-85, stagione che si dipana pigramente per la Nazionale azzurra. Bearzot fa esordire il ventinovenne portiere Tancredi nel risicato successo a Milano sulla Svezia, poi contro la Svizzera a Losanna (1-1 dopo uno splendido avvio azzurro) è la volta di Di Gennaro, regista del Verona, squadra boom della stagione. In dicembre a Pescara, ancora con Di Gennaro a dare geometria al gioco, supportato da Bagni e Tardelli e dal solito Bruno Conti sulle fasce, è 2-0 sulla Polonia, in una partita di gran carattere, che vede i nostri rispondere colpo su colpo alle “carezze” di Boniek e compagni.

Giugno 1985: la Nazionale è lontana, in Messico, in una tournée premondiale organizzata soprattutto per studiare i problemi dell’altura. Ne escono un sonnolento match di allenamento col Puebla, poi, nella capitale, il pari in rimonta col Messico e un successo di misura (2-1) sull’Inghilterra. Considerando gli inevitabili riflessi delle notizie da oltreoceano (la tragedia dell’Heysel) e la mancanza degli juventini, se non nel secondo tempo dell’ultimo match, risultati da non buttare. Positivo l’esordio di Galderisi, piccolo attaccante fresco di storico scudetto con la maglia del Verona, che pare avere i cromosomi (palleggio agile, fiuto del gol) del successore di Paolo Rossi.

La stagione del Mondiale parte per gli azzurri sotto auspici nefasti, con una storica prima sconfitta con la Norvegia, (25-9-85,1-2) impietosa nel mettere a nudo, sul campo di Lecce, i limiti tecnici della nostra squadra drammaticamente povera di classe. A centrocampo, Bearzot deve risolvere il rebus del crollo fisico di Tardelli in campionato e cerca di porvi rimedio ricorrendo a un altro interista, Giuseppe Baresi, fratello di Franco, incontrista puro senza slanci offensivi, piuttosto limitato sul piano tecnico. Il dettaglio è importante, segnalando la progressiva rinuncia alla qualità: la Nazionale campione del mondo rinunciava al regista, accostando il podismo illuminato a tutto campo di Tardelli alla classe di Antognoni. Ora le chiavi del gioco vengono concentrate nei piedi, decisamente modesti, di Di Gennaro. Così, mentre in campionato esercita una superiorità addirittura schiacciante la nuova Juve, pilotata da Platini ma anche dagli estri di Mauro e Laudrup e dalla sostanza di Manfredonia e Bonini, la Nazionale si scopre priva di anima tecnica.

A Chorzow in novembre ce le suona, sia pure di misura, la Polonia: al gioco azzurro poco aggiunge il volonteroso Massaro, provato come tornante. Ugualmente, il ritorno di Collovati al centro della difesa e il positivo esordio nella ripresa del giovane attaccante sampdoriano Vialli non appaiono granché incisivi. Eppure, sarà per i tre pali colpiti dagli azzurri, sarà per la buona dimostrazione di gioco nella ripresa, la critica nella sua maggioranza saluta la sconfitta come una specie di trionfo. La sindrome di Barcellona continua a colpire. Significativo, nella circostanza, il commento di Bearzot: «È una squadra, la nostra, che deve sempre, necessariamente, imporre il proprio gioco, mettere sotto gli avversari. Perché a differenza di altre, non possiede le risorse naturali per vincere una partita con un lampo, un ‘improvvisazione, una trovata». Una elegante circonlocuzione per sottolineare le difficoltà del momento, cioè la mancanza di fuoriclasse e l’impossibilità tecnica di armare un gioco offensivo di iniziativa.

La conferma giunge puntuale dalle tre amichevoli premondiali del nuovo anno. Come l’avversario propone un ostacolo non di semplice maniera (Germania Ovest sul terreno paludoso di Avellino), l’Italia esce sconfitta (1-2), palesando i soliti difetti di creatività a centrocampo, ma ricavandone — alla terza sconfitta consecutiva! – più di un elogio da parte della disorientatissima critica. A Udine, contro l’Austria a fine marzo, Bearzot tenta nuovi esperimenti con l’attaccante Vialli nelle vesti di tornante in appoggio ad Altobelli e Galderisi, subentrato dopo pochi minuti all’infortunato Rossi. Gli azzurri vincono in rimonta per 2-1, grazie alla bella prova degli interni Ancelotti e Di Gennaro e alla vivacità del “baby” doriano.

Bearzot stila la lista dei ventidue, non rinunciando a vecchi draghi ormai in disarmo come Tardelli (e Rossi, in crisi nel Milan, ma mai ripudiato dalla Nazionale); esclude invece il discusso Dossena così come il fantasista dell’Under, Donadoni, mentre apre le porte a Galderisi, Vialli e al mediano avellinese De Napoli. Bocciato anche il portiere Bordon, dopo la negativa stagione alla Sampdoria, sostituito non dallo juventino Tacconi, ma dall’interista Zenga. La Juventus ha vinto lo scudetto nei primi mesi del campionato, un generoso tentativo di rimonta della Roma di Eriksson si è infranto in casa sul derelitto Lecce a poche giornate dalla fine. Vinto il titolo, aggiunto alla Coppa Intercontinentale, Giovanni Trapattoni lascia dopo un decennio la Signora del calcio italiano.

In un clima di generale buonumore, fin troppo ostentato, lontanissimo dalle polemiche spigolose di quattro anni prima, gli azzurri allentano un comodo 2-0 al materasso Cina, tra la folla festante del San Paolo di Napoli, poi si imbarcano sull’aereo per Città del Messico: inizia l’avventura del mondiale.