Giovanni Arpino: Cronache Messicane

22 giugno: Quattro

A Città del Messico si è conclusa la «Copa do Mundo». Gli azzurri si sono battuti da uomini, forse con una lena inferiore rispetto all’incontro con la Germania, ma avevano di fronte almeno quattro mostri, di razza marziana più che «carioca». Pelé, Gerson, Rivelino, Jairzinho sono degli autentici «tiranni» del football giocato a ritmo di samba. Finte scarti, tocchi brevi, puntate continue in area costituiscono per loro un repertorio continuo. Dietro di essi, un portiere quasi di ferro, una difesa poco attenta, non appaiono imperforabili. Ma il genio degli avanti li copre, li protegge, sospesi per 90 minuti. Abbiamo perso, il pronostico tecnico è stato rispettato. Gli azzurri non potevano ripetere la partita fatta contro la Germania. Non si trattava più di toreare ma di spingere e sperare nel contropiede. Hanno vinto dunque i migliori, un’altra Coppa del mondo deve rinascere, questa Rimet è aggiudicata. Non è una disfatta per i nostri colori, non è umiliante subire tre gol di scarto da questi «gattoni » vellutati che sembrano in dormiveglia nell’angolo del focolare ma quando allungano la zampa fanno sparire la palla come un gatto fa sparire il topolino predato. Addio Coppa. Abbiamo ottenuto più di quanto ci assegnavano avare e ciniche previsioni. Siamo europei e secondi nel mondo, il possibile è stato raggiunto. Il gol di Boninsegna, un modello di rete, aveva equilibrato le sorti di un primo tempo che aveva visto il Brasile sempre attento a non scoprirsi troppo, con un Pelé che consigliava i suoi di retrocedere. C’è mancato un guizzo di genialità superiore, Riva non è riuscito a sbloccarsi completamente e la voglia di segnare l’ha spinto anche a qualche errore di egoismo che in una partita come questa si paga caro. I migliori dei nostri Mazzola, la difesa tutta con Facchetti che aveva davanti a sé un vero astro del nuovo football brasiliano Jairzinho (detto Jair), un coraggiosissimo e mai arreso Boninsegna. Chi più chi meno tutti hanno dato quanto tenevano nei muscoli, ma sono uomini, bisogna applaudirli per lo sforzò compiuto. Non bendiamoci gli occhi. Il Brasile è un undici che riesce a ribaltare qualsiasi schema tattico altrui grazie al potere della fantasia creativa. Dietro i suoi « marziani » ha un mediano di spinta, Carlos Alberto, che rifornisce palloni a ripetizione come una macchina. Si trattava di fermare lui e quelle frecce sornione, mimiche e meravigliose che sono gli attaccanti. Ma era come tentare d’imporre lo stop con una mano nuda ad un jet in corsa. Con il Riva del campionato e con un centrocampo meno debole (ma tutti i centrocampo dei mondiali sono stati soverchiati, triturati dal giuoco «carioca») avremmo potuto ridurre il distacco, non colmarlo. Le palle-gol perdute o sprecate non si contano: da una parte e dall’altra se ne sono avute a mezze dozzine. Siamo secondi ed il miracolo di salire un altro gradino non lo si poteva proprio compiere. Non c’erano stregoni che potessero farci più forti, più abili, non c’era sortilegio che potesse salvarci. Ad un certo momento, prima del secondo gol brasiliano, si poteva pensare di contenerli ancora questi demoni del calcio, e raggiungere i tempi supplementari. Sarebbe stato un onore rilevante. Ma appena i «tremendos» hanno ingranato la marcia, decisi a far propria la Coppa, abbiamo ceduto. Con la bava alla bocca, con i tendini del collo tesi come corde, con rabbia ed orgoglio indomabile, però inevitabilmente ceduto. Abbiamo anche rischiato, abbiamo anche sfiorato un secondo gol, abbiamo fatto morire di paura per sessantacinque minuti una folla tutta di tifo sudamericano. Abbiamo visto un Bertini, dotato di forza fisica eccezionale, stremato dalla lotta, dai colpi ricevuti (almeno quanti ne ha dati) e costretto ad abbandonare il terreno, lui che mai aveva perso il fiato per cinque partite in altitudine. Abbiamo visto un Domenghini lottare come un toro e rischiare pure l’espulsione per un brutto colpo dato da tergo a Pelé. Fino all’ultimo ha tentato la cannonata spremendosi come un pioniere nel deserto. Abbiamo visto Mazzola gettarsi in area pazzamente cercando un estremo dribbling. Abbiamo visto un Facchetti smettere l’abituale eleganza di tocco e stringere Jairzinho con la forza dell’atleta che non vuole arrendersi. I brasiliani meritano ampiamente questo terzo titolo mondiale. Proprio perché vivono di football. Non solo i loro pazzi tifosi che sparano, uccidono e travolgono tutto per una vittoria e adorano i giocatori come santi in terra, ma anche questi divi del pallone che vedono solo football, mangiano, bevono, cantano football, fanno e disfano i pensieri col football, appartengono ad un pianeta che non ha la forma della Terra ma ha gli spicchi del pallone di cuoio. Adios Copa e Adios Mexico. Siamo stati protagonisti se non i vincitori assoluti. L’ultimo monologo doveva spettare a questo Brasile. Ma il tono della nostra recita ha avuto momenti di indimenticabile prestanza atletica. Oggi i messicani ci ringraziano. Non è poco. Questa Coppa appena sfiorata ci ha restituito una Nazionale che potrà fare meglio purché combatta come ha combattuto qui, non avendo contro diavoli scatenati ma uomini in carne ed ossa.