SERIE A 1935/36: BOLOGNA

I rossoblù spezzano l’incantesimo della Juventus e trionfano con un punto sulla Roma di Bernardini. Retrocedono Palermo e Brescia

Riassunto del Campionato

La Juventus non è al meglio e lascia spazio ai rivali fin dall’inizio. La Roma di Monzeglio e Allemandi sembra la favorita, ma la partenza dei sudamericani alla vigilia del campionato ne indebolisce l’attacco. Ne approfitta il Bologna, che si basa sulla sua costanza di rendimento. I rossoblù di Veisz si portano subito in testa alla classifica e, pur senza allungare troppo, la conservano fino alla fine dell’anno, quando la battuta d’arresto casalinga col Bari dei rossoblù e le contemporanee vittorie della Juventus a Brescia e del Torino con una goleada sulla Fiorentina (5-0) creano un terzetto al comando giusto prima della fine del girone d’andata. Ed è la Juventus a vincere il simbolico titolo d’inverno, superando nella nebbia l’Alessandria.

Ma il Bologna non molla e ritorna in vetta, inseguito dalla Roma. Tutto da decidere all’ultima giornata: il Bologna affonda la Triestina, la Roma vince a Palermo ma non basta: per un punto rossoblù campioni. In coda, finale amaro per lo stesso Palermo, che accompagna il già retrocesso Brescia nella discesa in B.

Il Bologna di Dall’Ara e Weisz

L’allenatore Arpad Weisz

Renato Dall’Ara, imprenditore di Reggio Emilia trasferitosi a Bologna, ha assunto la guida del club rossoblù nel 1934. Prima commissario straordinario, poi presidente, per un’avventura che si concluderà tragicamente nel 1964, a un soffio da uno spareggio-scudetto storico. Non si accontenta della mediocrità e d’altronde la tradizione di grandezza del Bologna è troppo recente e prestigiosa per accontentarsi del campionato 1934-35. Sceglie come allenatore Arpad Veisz, uno dei più grandi dell’epoca.

E per il campo ha due intuizioni geniali: la prima, cede Monzeglio alla Roma nonostante sia un campione del mondo, fidandosi del giovane Dino Fiorini, cresciuto nel vivaio, come suo sostituto; la seconda, chiede a Fedullo, che rientra in patria per motivi personali e vuole restarci (ma poi per fortuna del Bologna cambierà idea), di segnalarli un giovane talento del suo paese per la mediana. Fedullo gli manda Miguel Andreolo, figlio di italiani, un tipo tosto che attraversa l’Oceano sulla semplice speranza di ottenere un contratto.

Su questi due nomi si basa il mercato del Bologna, che vende anche il terzino Bernardi (Verona) e l’interno Spivach (Sampierdarenese) e acquista il giovane attaccante Violi dalla Reggiana. Ad Andreolo basta una partitella per dimostrare di meritare un ingaggio importante e Fiorini sembra una furia scatenata, appena liberata dalla sua voglia di giocare, contrastare e arrembare con la maglia da titolare. Veisz fa il resto, costruendo una squadra forte, solida, tecnicamente superba e anche formidabile sul piano fisico, se è vero che chiude il campionato al primo posto usando solo 14 giocatori.

In porta, il “gatto magico” Mario Gianni, a trentatrè anni ancora una colonna. Davanti a lui, la coppia di terzini FioriniGasperi. Due rocce. Il primo, dal tiro pulito e potente, spazza l’area con continuità implacabile ma si propone anche in avanti, grazie alla straordinaria forza fisica: corre i cento metri in undici secondi netti e ha un salto elevato. Il secondo, detto “tubo di gelatina”, tre volte nazionale, è un marcatura focosa, perfettamente complementare al compagno. La mediana è superba: l’ex veneziano Montesanto, instancabile mastino fortissimo di testa, sulla destra; dall’altra parte, l’ex patavino Corsi, rapido e duro fino al cinismo negli interventi sull’avversario; al centro, Andreolo chiude e riapre il gioco da perfetto regista della manovra.

Eccellente la sua intesa con i connazionali Sansone e Fedullo, interni l’uno di stile raffinato l’altro di concretezza prodigiosa e forte carattere (non a caso gli è vietato il calcio nel suo paese, dopo aver dato un pugno a un arbitro e aver ottenuto l’amnistia, con possibilità di tornare a giocare ma solo fuori dai confini, grazie al titolo mondiale 1930). Bruno Maini è l’ala destra eclettica, che inizia come mezzala e poi si sposta sull’esterno per sfruttare la sua velocità e il suo potente tiro in porta. Gioca anche come centravanti, sempre con grande qualità. Sull’altro lato, c’è Carletto Reguzzoni, di cui Hugo Meisl (creatore del Wunderteam) ha detto dopo una vittoria in Mitropa Cup: «Questa è l’ala migliore d’Europa!». Veloce, astuto, incisivo, è il compagno ideale per il trentenne Schiavio, che pur facendo il doppio lavoro di imprenditore resta fedele al suo ruolo di centravanti campione del mondo. Un Bologna che non spreca energie, che non supera i 40 punti (e i 39 gol fatti), ma che vince meritatamente.

L’uomo più: Miguel Andreolo

Nel gennaio 1935 l’Uruguay si aggiudicò la Coppa America (allora chiamata “Torneo Sudamericano”) sconfiggendo in finale i rivali storici dell’Argentina. Fu l’ultima impresa della “generazione olimpica”, che aveva dominato il calcio mondiale per più di un decennio. Tra i giovani della squadra, pronti a raccoglierne l’eredità, c’era un ventiduenne centromediano, Miguel Andreolo, nato a Soriano, vicino a Montevideo, il 6 settembre 1912. Da Soriano era passato presto al Nacional di Montevideo, dove la sua classe innata aveva spinto il “faro” Faccio, grande centromediano destinato all’Inter, a spostarsi a mezzala per lasciargli spazio. Andreolo era robusto e potente, non molto alto ma bravo nel gioco aereo. Aveva un talento naturale per il ruolo: marcava con aggressività il centravanti avversario, sapeva impostare il gioco con lanci lunghi e precisi e si inseriva anche in attacco, dove il suo tiro micidiale da fuori area metteva in difficoltà i portieri e… i pali, si diceva che più di una volta ne avesse spezzati con la forza del suo “shoot”. Aveva solo una debolezza, il calcio di rigore, perché si lasciava intimorire dal portiere nel duello dagli undici metri.

Il Bologna aveva bisogno di rinforzare quel ruolo, dopo la partenza dell’altro uruguaiano Occhiuzzi, e chiese a Fedullo di suggerire un giovane di prospettiva. Il famoso interno non si sbagliò, indicando il connazionale Andreolo. Che nel 1935 arrivò in Italia senza contratto, armato solo di speranze e subito si impose nel gioco del Bologna, portandolo ai vertici del calcio italiano senza problemi di adattamento. Amante della bella vita ma professionista esemplare, conquistò il Ct Pozzo, che lo scelse come erede di Luis Monti per vincere il Mondiale del 1938.

Delusione bianconera

La morte improvvisa, a soli quarantatré anni, del presidente Edoardo Agnelli segna una pausa (che durerà fino all’arrivo dei figli Gianni e poi Umberto) nella presenza della Famiglia torinese per antonomasia nella sua amata Juventus. Inizialmente la gestione viene affidata interamente ai vicepresidenti Mazzonis e Craveri, finché nella primavera del 1936 verrà eletto il nuovo presidente, il conte Emilio de la Forest.

Chi pensava che la forza dei cinque scudetti consecutivi permettesse alla Signora di superare lo choc si sbagliava: dopo un ottimo andamento della squadra per gran parte della stagione, coronato dal primo posto a metà campionato, nel finale la squadra crolla, lasciando sfuggire lo scudetto nelle ultime giornate. La politica del continuo rinnovamento vincente, d’altronde, non poteva andare avanti all’infinito, soprattutto dopo che l’organico ha subito due perdite pesanti: Mumo Orsi, rientrato in patria prima del tempo, e Giovanni Ferrari, partito per un errore che Agnelli non avrebbe fatto: il giocatore aveva chiesto un modesto aumento di stipendio, ma i dirigenti, decisi a imporre un clima di austerità, avevano risposto con un rifiuto così irremovibile da spingere il formidabile interno ad accettare le offerte dell’Ambrosiana-Inter.

In più, anche Cesarini era tornato in patria (dove avrebbe vinto il titolo col River prima di diventare allenatore) e il livello tecnico era inevitabilmente calato. La campagna acquisti aveva sostituito i partenti con l’ingaggio di tre attaccanti: il fratello maggiore di Borel, Aldo, dal Palermo, l’ala Menti I dal Vicenza e l’altro esterno Prendato dalla Fiorentina. Buoni giocatori, ma non campioni. E nella casella delle assenze non si poteva ignorare Carcano, artefice dalla panchina della grande squadra del quinquennio. La sostituzione di un tecnico così integrato nell’ambiente sembrava così difficile da optare per una soluzione provvisoria: il grande Virginio Rosetta, nelle vesti di allenatore-giocatore. Risultato: la Juve finisce al sesto posto e torna sulla… terra, dopo cinque anni straordinari.

Fuga da Roma

A pochi giorni dall’inizio del campionato, il 19 settembre 1935, i tre calciatori argentini (oriundi, cioè di origine italiana) della Roma Guaita, Scopelli e Stagnaro si presentano alla visita di leva, obbligatoria perché considerati italiani. Uscendo dalla caserma di via Paolina sono arruolati come bersaglieri. Una formalità? Forse, ma in quei giorni la tensione per la “questione etiopica” è alta e la paura (infondata) di essere mandati in Africa a combattere prevale sulle parole rassicuranti del direttore sportivo Biancone che li ha accompagnati: così questi accetta di lasciarli al consolato argentino, per un chiarimento che li tranquillizzi.

Pochi ore dopo, però, i tre non si presentano al Testaccio per l’allenamento. La sera un tifoso chiama la sede della Roma: i tre sono stati visti salire con mogli e valigie su una grossa macchina partita di corsa. Il presidente Vittorio Scialoja rimane stupito: il giorno prima ha accettato la richiesta esagerata dell’attaccante Guaita di 10 mila lire al mese. Ma è tutto vero. I tre sono scappati in macchina verso la Francia, da dove si sono imbarcati per il Sudamerica. I giornali li definiranno “traditori”. Per la Roma è un tradimento: arriverà seconda, senza le defezioni avrebbe vinto lo scudetto.

Il gigante Fulvio

Fulvio Bernardini è stato una figura emblematica del calcio italiano, in cui ha ricoperto diversi ruoli con successo. Nato a Roma il primo gennaio 1906 da una famiglia benestante, ha iniziato la sua carriera come portiere prodigio della Lazio a soli quattordici anni (!) nel gennaio 1920, ma poi ha cambiato ruolo su consiglio dei genitori, preoccupati per un trauma cranico subito in campo. Si è trasformato in un centravanti di grande classe e si è trasferito all’Inter nel 1926, scoprendo di essere l’unico a giocare senza ricevere compensi clandestini dai dirigenti.

In Nazionale, il commissario tecnico Pozzo lo impiegava come centromediano metodista di raffinata qualità, ma troppo avanti tecnicamente per il suo schema tattico, che privilegiava giocatori più pratici e veloci come Ferraris IV e poi Monti e Andreolo per le imprese mondiali. Fulvio è tornato a Roma, ma con la maglia giallorossa, nel 1929, giocando come interno e poi stabilmente da centromediano, con qualche sporadica apparizione da attaccante. In ogni ruolo, ha dimostrato eccellenza e personalità, diventando un idolo della squadra del Testaccio e alimentando l’idea che la sua esclusione dalla Nazionale fosse dovuta più a motivi politici che sportivi.

Ora che, vicino ai trent’anni, ha una squadra competitiva al suo fianco, il suo gioco sembra ancora più brillante. I tifosi lo acclamano dicendo che «Bernardini fa scuola agli argentini», tanto è superiore la sua classe che lo fa spiccare tra compagni e avversari con la sua figura alta ed elegante. Roma lo ama con un amore viscerale, che lui ricambia con la sua dedizione di giocatore e di leader. Giocherà fino al 1939, per poi diventare un allenatore di grande successo, nonché giornalista professionista di fine intelligenza e stile morbido ma incisivo. Polemista arguto, si laurea in scienze politiche (lo chiameranno “il Dottore”), arricchendo oltre mezzo secolo di calcio italiano.

Il capocannoniere Meazza

Lo chiamano “Il Balilla”, perché quando esordì nella Coppa Porta al posto del centravanti Castellazzi, infortunato, l’ala Poldo Conti disse scherzando al suo allenatore Veisz: “Quello? Ma se è un Balilla…”. I Balilla erano i ragazzi tra gli otto e i quattordici anni che il Regime addestrava militarmente. Allora bastarono due gol per trasformare il debuttante in un promettente talento.

Sei anni dopo, a ventisei anni (è nato a Milano il 23 agosto 1910), Meazza torna a vincere la classifica dei marcatori, riprendendo il suo dominio e confermando il suo inalterato fascino di campione, consacrato anche dal titolo mondiale del 1934. Il suo stile di gioco gli permette di arretrare a mezzala per servire i compagni e poi di avanzare improvvisamente per finalizzare lui stesso. Il dribbling morbido, la finta micidiale, i magici trucchi con il pallone lo rendono lo showman per eccellenza del calcio italiano. Una torta sulla quale sono sempre accese le candeline del gol. Giuseppe Meazza è l’idolo calcistico più amato del Paese, che rappresenta l’orgoglio sportivo e la vocazione all’arte e alla creatività in ogni campo.


Classifica Finale

SquadraPtiVNPGFGS
Bologna40151053921
Roma3916773220
Torino3816684933
Ambrosiana-Inter3614886134
Juventus3513984633
Triestina32101284639
Lazio30118114842
Milan28108124041
Napoli28116134245
Alessandria28910113437
Genova 18932871493844
Fiorentina27107133242
Sampierdarenese2799123249
Bari25711122638
Palermo23103172450
Brescia1656192142
Campione d’Italia: BOLOGNA
Vincitrice Coppa Italia: TORINO
Retrocesse in serie B: PALERMO e BRESCIA
Qualificate in Coppa Europa BOLOGNA, ROMA, TORINO e AMBROSIANA

Classifica Marcatori

RetiMarcatore
25Meazza (Ambrosiana)
20Gabetto (Juventus)
19Piola (Lazio)
12Busoni (Napoli), De Vincenzi (Ambrosiana)
11Arcari (Milan), Rocco (Triestina)
10Mian (Triestina), Schiavio (Bologna), Silano (Torino)
9Baldi (Torino), Bo (Torino), Moretti (Milan), Rossetti (Napoli), Scagliotti (Fiorentina)