Giovanni Arpino: Cronache tedesche

29 giugno 1974: L'Italia in crisi di fondo

logo74-bar3-address-wp E’ uno di quei giorni d’attesa che in gergo vengono definiti «morti ». Un giorno in cui, come disse Flaiano, « lo scrittore di cinema è un tentativo della natura per utilizzare la noia». E uno scrittore di sport? Centinaia di giornalisti, chiusi negli scarsi metri cubi delle loro stanze d’albergo, cercano di imbastire articoli, imbottire interviste, lo vorrei parlare d’altro, mentre battaglioni di macchine per scrivere distillano elucubrazioni sulle prossime partite, sulla finale, su quell’Olanda che secondo certi machiavellici pareri si è ormai «scoperta troppo». Come se le fosse stato possibile nascondersi, in un «mondiale» dove partiva tra i massimi favoriti. Cerchiamo di sfruttarla con la riflessione, questa giornata, mentre sulle buie acque del Meno scorrono lunghe chiatte cariche di sabbia, carbone, macchinari, e donne instivalate a poppa stendono familiari bucati. C’è una paroletta che mi gira male nella memoria da vari giorni. L’hanno pronunciata in troppi: è il vocabolo «mentalità». Tutti dicono che bisogna cambiare, correggere, rivedere, spolverare questa nostra «mentalità», riguardante il mondo del pallone, beninteso. Prese alla lettera, queste definizioni sono tanto semplicistiche da sfiorare il ridicolo. Come se un tizio, di punto in bianco, potesse cancellare i suoi connotati, la sua anagrafe. E tuttavia, seguendo la traccia di questa «mentalità» che fiorisce su tutte le bocche, siamo ormai in grado di rivedere il vecchio film azzurro consumatosi in questo fatal Campionato. La crisi è di fondo, è globale. Quando si perse con la Corea, quando ci si azzannò per la staffetta messicana, si trattava pur sempre di soluzioni tecniche, sfortunate o improvvide, come capita con un gioco cosi labile e contraddittorio qual’è il pallone. Stavolta invece siamo precipitati, senza possibilità di discussione. Gli amici forestieri, siano svedesi o jugoslavi, dicono: avete uomini di prim’ordine, lo stesso Mazzola visto ai «mondiali» troverebbe posto ed autorità in qualsiasi squadra, ma non sapete costruire una compagine articolata, ricca d’una manovra sua. E probabilmente hanno ragione. La nostra «mentalità» tecnica è artigianale, presuntuosa, disancorata dal reale. Per la spedizione azzurra in Germania furono fatti grandissimi preparativi: ci viene assicurato che persino due antiquari o arredatori (fiorentini, e come potevamo dubitarne, vista la matrice del clan?) siano venuti al ritiro » della Nazionale per spostare mobili, lumeggiare le stanze. Roba che forse non si concede Liz Taylor, pur sempre alla ricerca di «periodi di riposo». Ma mentre gli arredatori trovavano l’esatta angolazione di una poltrona, chi andava a «visionare» i nostri possibili avversari? L’eterno Valcareggi (non chiamiamolo più Zio, una simile parentela potrebbe ormai comprometterci) e i peripatetici Bearzot e Vicini, indaffarati a rediger rapporti che nessuno ha mai letto. Persino durante le partite d’esordio accaddero fatti singolari: un osservatore di Valcareggi, spedito a «controllare» la gara tra le due Germanie, chiese aiuto ai giornalisti presenti, non sapendo come giudicare il «derby» tedesco, di una chiarezza evidente anche per un orbo. E’ sempre questione di «mentalità» o tiriamo fuori altri termini, ad esempio incompetenza, arteriosclerosi nella gestione di una «industria» qual è ormai la Nazionale? Proseguiamo: arrivati al disastro che sottolinea come il nostro football sia inquinato e dilettantesco, lo «staff» intero fugge verso i lidi patrii. Neanche un tecnico rimane per studiare quanto gli altri fanno, da Stoccarda ad Hannover, da Francoforte a Duesseldorf. Come a dire: non essendoci noi, il romanzo del football non esiste più. Avremmo dovuto tenerli qui a guinzaglio, per mettergli davanti olandesi e polacchi, tedeschi e brasiliani. Rischiamo invece che il calcio nazionale, il nostro adorato pallone, scivoli su un piano inclinato, più o meno come accadde in Francia. E l’eterno Rivera, se non lo salverà la schedina del «toto» (madre e maestra delle pedate casalinghe), potrebbe finir la carriera con una scritta pubblicitaria di gassose sulla schiena. Sempre dicendo grazie alla nostra «mentalità». Non abbiamo grandi giocatori? Ma non abbiamo neppure i dirigenti adatti, che sarebbero torse più urgenti, in questo momento. Artemio Franchi, gran politico, si è ormai dato alla diplomazia estera dell’Uefa. Per la Federcalcio è indispensabile un nome nuovo, di grande prestigio, e lo stesso «granduca» Franchi ne è convinto. Il football europeo non aspetta. In due anni ci ha scavalcato, dandoci un distacco mostruoso. L’«esercito in mutande» di 700 mila iscritti, piramide della Federazione, è una massa incontrollabile ma disarmata. Ricorda tanto quei famosi milioni di baionette di oltre trent’anni fa. Potevamo venire ai «mondiali» con una squadra decente, anziché trascinarci dietro una masnada impreparata, litigiosa, dalla quale ogni giorno bisognava estirpare qualche erba maligna. Scrivevamo l’11 giugno nel «supplemento» che il nostro giornale dedicò ai mondiali: se gli azzurri vincessero, dimostrerebbero che sono diversi e cioè migliori di noi. Indicavamo questo punto chiave come l’anello misterioso della catena. Ebbene: i pellegrini azzurri (tranne alcuni esemiplari elementi) non sono migliori. Ma il panorama del calcio potrebbe esserlo, se gli addetti ai lavori operassero l’atteso, indispensabile «repulisti» dirigenziale, tecnico, di costume e di impianto. Poi potremo ricostruire una nuova nazionale. Non dipende solo dai club (subito incolpati dai responsabili azzurri), non dipende certo dalla critica (che Valcareggi, nascondendosi dietro la sua stessa coda, accusa di protezione campanilistica: come se a Milano avessero fatto la rivoluzione per Chiarugi in squadra, come se noi avessimo sbraitato per Sala lasciato a casa: il «padrino» ha le gambe corte come le bugie). Dipende sempre da quella famosa «mentalità», ormai scoperta come minimo comune denominatore di tutti i mali. Continuiamo ad allevare calciatori quindicenni paralizzandoli in ruoli specialistici, impedendo la prima cosa fondamentale in calcio: il divertimento di chi deve scoprire se stesso, raffinare le proprie doti. Continuiamo, dì conseguenza, a non creare gioco. Proseguiamo poi nell’amministrazione dilettantesca di questo gioco, dai clubs fino alla nazionale. Mentre gli altri imparano, sgobbano, corrono, sono moderni sia in campo, sia nelle strutture sociali. Dalle nostre parti non si conosce e non si rispetta critica ed autocritica, lo stesso Valcareggi che dice: «Date la colpa a me», crede, con simile frase marmorea, di atteggiarsi come un condottiero alla Colleoni. Certo che diamo la colpa a lui, ma solo per la parte che gli spetta (e non è poca). A chi dovremmo attribuirla? Alla cugina Filomena? Ma se vogliamo guardare al di là della fronte corrugata del nostro commissario, scopriamo che pure lui è una piccola ruota, un minuscolo bullone nel nostro apparato che non cambia, non cresce. Non è lontano il giorno in cui perderemo persino con Haiti, se non abbattiamo certe palizzate di cecità, se non si lavora, dai generali ai furieri.