Giovanni Arpino: Cronache Argentine

15 giugno 1978: Toreri per le avenidas di Baires

Mi hanno definito «El Brillante» su un quotidiano argentino in una corrispondenza da Roma, dove sono annotati i nostri pregi (esagerandoli per educazione) e le nostre «defaillances» (mitigandole con generosità). Corro a guardarmi nello specchio, preoccupato. Per fortuna, lo specchio non mi riflette con aloni intorno alla zucca. Per fortuna, quel tipo lì davanti sta diventando sempre più logoro, coperto di vecchie camicie e vecchi golf, con gli occhi rossi di sonno. Sono ancora io. E non desidero affatto «brillare». Non appartengo ad una «squadra ideale», simile a quella che le gazzette compilano mischiando i giocatori migliori come le carte di mazzi troppo diversi. Non c’è nulla di cui «brillare». La nebbia è fìtta, ma il sole intorno a mezzogiorno la scioglierà. Abbiamo già percorso tutti quanti un diecimila chilometri circa su e giù per Baires e Mar del Plata e di nuovo Baires, tra alberghi e centrostampa.

L’Avenida Sarmiento, che conduce al blocco dove si raggrumano telefoni, macchine da scrivere, uffici e telescriventi, sarà calata di due dita a furia dei passi nostrani. Qualcuno ormai canta, in quieto delirio: «Torna a Sarmiento, torna anche tu». Del resto, ho composto, in collaborazione con Giulio Cesare Turrino, una canzoncina per il «Mundial» all’italiana, sull’aria di «Una lacrima sul viso», usando al posto dei singhiozzi verbali alla Bobby Solo termini come «chorizo», il filetto di bue. Gli amici non pretendano che gliela canti, al ritorno: è troppo legata all’ambiente, ai fatti momentanei, diventa intraducibile al di fuori, mentre qui aiuta, come capita nelle camerate delle caserme o nelle stive dei marinai.

Langue il turismo tanto agognato dagli argentini. Un’inchiesta locale allinea lamentele da parte dei negozianti: costerebbero troppo cari persino i giubbotti o le sottane di pelle che contavano di vendere come prodotto ricercato dagli europei. Nella infinita giungla di negozi e negozietti che copre chilometri della zona pedonale, non si fanno affari. La televisione e l’inverno hanno tenuto lontano tedeschi e italiani, spagnoli e canadesi. I bottegai sperano in un ultimo sussulto durante i tre giorni delle finali, ma le cifre sono già disastrose: nessuno «caccia» un dollaro, se non per nutrirsi. Non mancano, invece, le amenità di coloro che insistono nel trasformare il football in scienza esatta.

Se ne sentono di tutti i colori: chi vuole Bettega alla mezzala, non avendo ancora notato che Bobby sta facendo il Di Stefano azzurro a tutto campo, chi insiste nei ricordare un certo Di Bartolomei romanista, che — con tutto il rispetto — qui scalderebbe non la panchina ma un banco in chiesa. Le turpitudini critiche, nate a Baires e che vanno superando quelle in cui si voleva irretire la Nazionale prima della partenza, hanno qualcosa di portentoso: il nostro machiavellismo è ormai il primo prodotto nazionale, naturalmente lordo.

La più grossa è questa: riguarda Paolino Rossi, che è stato, secondo molti, non uno tra i migliori, ma l’unico tonico, anzi il ragazzo «che aveva salvato Bearzot». Paolino Rossi ha giocato in Nazionale da sempre, con la divisa militare o nella «Under» o nelle «sperimentali». Ebbe persino il regalo, da parte dello «staff» azzurro, di non rischiare in campo durante la gara all’Olimpico con la Jugoslavia, dove sarebbe stato crocifìsso per il cattivo andamento di tutta la squadra. Quel giorno il «vecio» lo salvò dai fischi e dagli insulti romani. E invece no: dovrebbe essere Io stesso «vecio» ad ordinare un «ex-voto» in cui Pablito appare tra le nuvole, come un santo di paese, e gli regala sia il gol sia la guarigione dalla malaria. Lo schieramento della critica che «aumenta» la valutazione del nostro «Nino milliardario», com’è definito qui Rossi, finisce così per diminuire i meriti collettivi, per levare qualcosa a Romeo e a Gentile, a Bobby e a Tardelli, a Causio e a Zac.

Ma è inutile colloquiare con certa gente: vi sono cervelli che abbisognano continuamente di inventare un «eroe», un «salvatore della patrie», un novello «capataz» e taumaturgo. Credo che il primo a storcere il naso sia proprio Pablito. A proposito del quale il collega Giorgio Lago, veneziano, discutendo con Farina, presidente vicentino, fa: «Hai fatto bene a tenerti Pablito, ciò. Ti te tieni un Leonardo in casa e gli altri te vogliono dar tre Canaletto e na ramassa. Ti disi: no, il mio Leonardo xe unico, xe la Gioconda». Il presidente Farina sorride, anche se il baffo gli tremola un po’. Forse pensa che Leonardo ha dipinto anche il «Cenacolo», a Milano, il quale va irrimediabilmente stingendo, e che nessun restauratore venuto da Londra o da Parigi riuscirà a salvare: e prega che Pablito Rossi non corra identico destino, non diventi, a poco a poco, un ectoplasma.

Sono partiti i giocatori tunisini. Pare li abbia «comperati» in blocco lo Scià di Persia. Ci tenevano a battere la Germania campione del mondo 74 proprio per alzare le loro quotazioni in dollari: hanno masticato chissà quante parolacce per lo zero a zero e un «penalty» negato, hanno mostrato visi fierissimi da «Casbah» (magari quella di «Totò le mokò»). Rimangono i francesi dei giornali, che per consolazione imperano a tavola, divorando tutto e bevendo come spugne: sfido, una bottiglia di vino bianco argentino, che arriva da Mendoza e si chiama o «Borgogna» o «Kriesling» o «Soave», secondo le antiche tradizioni, costa un decimo di quanto la si paga in Francia e non sa di solfito, è pura e buona.

Sono pochi quelli che ci guardano male perché gli azzurri hanno cacciato l’Argentina dal «River Plate». Dopotutto l’Italia è la «segunda marna» per milioni di persone, qui. Certo, non dovevamo fargli lo sgarbo, sembrano significare certe occhiate malinconiche. Ma vedremo da oggi cosa accadrà tra di noi. La tribù critica — e forse il popolo tifoso per intero — è solita comportarsi nei confronti degli azzurri come certi padri e certe madri. Costoro dicono «nostro figlio» quando tutto va bene, il ragazzo è promosso, torna a casa presto alla sera e si lava i denti. Dicono invece, l’uno contro l’altra «tuo figlio» se è bocciato, se ruba i soldi nel cassetto, se insegue donzelle o imbratta i muri con lo spray. Altrettanto accade a certi censori e pennaioli: pronti all’urlo «abbiamo vinto» quando la squadra elimina l’avversario, ma subito dopo feroci nell’accusa di «hanno perso», «avete perso», «siete nessuno», se per caso capita il pareggio striminzito o la sconfitta. E’ un rapidissimo «transfert» che consente a ciascuno di passare da fratello a giudice senza pietà, eliminando i precedenti affetti e le precedenti parentele di comodo. In ogni caso siamo i più modesti.

Non so se qualcuno di noi abbia fatto baluginare l’idea più o meno trepida e illusoria del titolo mondiale. So però che tutti gli altri, dai tedeschi ai polacchi agii argentini, spargono parole d’ordine e battono grancasse ad ogni quarto d’ora. E’ anche il festival della menzogna programmata. L’olandese Rensenbrink, che ha segnato lo «storico» millesimo gol di tutti 1 campionati del mondo messi insieme. A domanda risponde: «Sì, sono molto soddisfatto ed emozionato». Che razza di gatto randagio: è un tale, questo «punterò», che non entra in campo se prima non vede i soldi, e gli stessi olandesi, che sono affaristi di categoria superiore, lo considerano un maestro. Forse l’emozione era legata a qualche idea di rapida monetizzazione del gol. Magari un «poster», un’intervista a pagamento, una nuova scarpa da ginnastica da lanciar sul mercato.

Ieri mi sono trovato in una immensa piazza dove la nebbia rendeva quasi invisibile la sagoma d’un cavaliere di bronzo. Passavano soldati e camerierini con vassoi di caffè, si alzavano saracinesche, gli alberi ripigliavano a poco poco, rubandoli ai vapori, certi toni rossicci, gialli, di un verde denso. Pareva un angolo di Torino architettonicamente deformata e ridisegnata da De Chirico. Poi è uscito il sole e tutto sembrò più chiaro ma anche più sinistro ed estraneo. Per incoraggiarmi ho studiato il «passo» degli argentini, e come se ne infischiano di macchine, camion, autobus, carriole, semafori. L’Argentina non ha i tori di Spagna e le corride, però tutti si atteggiano naturalmente a toreri. Bisogna che il parafango sfiori il tuo ginocchio, anche la vecchiettina stenterella, col bastone, attraversa in un tormentoso, clacsonante guazzabuglio di motori, senza concedergli una sola occhiata. Il tassista si impegna in gare di velocità e in curve spericolate come se fosse in un autodromo. L’autobus o «collectivo», come lo chiamano, svolta stridendo, sbuffando e si precipita da una «avenida» a dodici corsie in una via normale senza il minimo rallentamento e senza, beninteso, alcuna segnalazione.

Non si sa quindi perché Reutemann, pilota di formula uno ed argentino, ritardi tanto la sua Ferrari alle partenze. Continuo a considerare miracoloso questo «Mundial». Crea problemi, ma risolve o pacifica o rimanda o lenisce un’infinità di traumi, come è sempre accaduto con l’uso del «circense». Penso che certi governi, se potessero, lo farebbero durare un paio d’anni, e in quel periodo alcuni mali — non tutti ma diversi — guarirebbero da soli, come accade con le emicranie notturne, di cui ci si dimentica al risveglio. In Argentina, poi, dove tutti si giocano tutto, è anche un sogno di ricchezza: chi vince al totalizzatore del «Mundial» si mette al riparo. Per questo sui giornali campeggia un individuo grasso e felice, con una sottana scozzese al posto dei pantaloni. E’ grazie alle rabbie dei sempre brilli isolani, eversori dell’ Olanda, che costui si è fatto i soldi. Forse, ordinerà una vasca da bagno a forma di bottiglia di whisky, per la sua nuova casa. Un napoletano non esiterebbe.