Giovanni Arpino: Cronache Argentine

20 giugno 1978: Un sogno folle, non proibito

E adesso sia pure folle il sogno. O battiamo l’Olanda e si arriva in finale per una indimenticabile faida con argentini ovverossia brasiliani, o niente: varrebbe persino la pena di infischiarsene del terzo-quarto posto. L’avventura degli azzurri è splendida: rischiano di terminare invitti il «Mundial» e non metter piede — per via della differenra reti — sulla gramigna del «River» domenica prossima giorno della conclusione. Questa è la realtà d’oggi, a cui bisogna opporre il folle sogno, maledicendo ancora il tacco di quel tedesco che deviò il pallone-gol di Bettega, l’ammasso di corpi ancora tedeschi che negarono nuovamente a Bobby la zampata vincente. Certo una lotta per il terzo-quarto posto, a lume di ragione, è più che lodevole, è addirittura la laurea per la «gestione Bearzot». Pochissimi l’avrebbero sottoscritta un mese fa. Ma a chi ha attraversato la giungla di questo «Mundial» suonerebbe come cenere statistica. O il titolo o tutti a casa, imbattuti, stralunati.

Contro l’Austria, che a parere del suo allenatore ha giocato cento volte meglio dello «standard» solito, la squadra italiana non ha brillato granché, pur strappando la vittoria. Anche se avesse dilagato negli ultimi minuti con i possibili gol di Tardelli, Cuccù, Graziani, alcune annotazioni critiche sarebbero rimaste. Serpeggia una certa stanchezza, più che logica, più che normale. Acciacchi e qualche malanno non possono guarire in pochi giorni di distanza tra l’una e l’altra gara. Ma non saremo certo noi a schierarci tra coloro che ancora una volta «correggono la vittoria». Il paragone è tentante, e non vorrei che risuonasse blasfemo: ma se il «vecio» compisse il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, state certi che uno dei commensali, benché affamato, si alzerebbe in piedi opponendo: io voglio una cotoletta (alla milanese, naturalmente).

Dopo quattro vittorie e un dannato pareggio, il Club Italia tiene testa alle incognite del «Mundial» con una dignità che supera il fiatone. La gara con l’Olanda sarà orrenda: perché i tulipani giocano a zona, non si lasciano marcare stretto; perché il truce allenatore austriaco Happel è un pessimo ricordo per gli juventini; perché il blasone dei vari Rensenbrink luccica ancora intatto; perché l’«arancia meccanica» orfana di Cruyff mantiene un suo ritmo variabilissimo; perché tra le quadre che sono «cresciute» durante questo «Mundial» è proprio l’Olanda a denunciare sintomi di maggior salute, anche se ha sofferto davanti alla Germania, anche se è stata battuta dagli ubriaconi scozzesi nel primo turno. Il folle sogno prevede solo vittoria. Un pareggio — onorevole ed eccezionale — ci lascerebbe fuori dal giro. Vecchi e provati cuori di critici onesti coltivano questo sogno pazzo, cosi come l’ultimo tifoso nascosto in un bar italiano. Dopo tante prove di sapienza manovriera, gli azzurri si trovano contro una realtà durissima, ma la partita è ancora da giocare, quindi siano libere le congetture e le speranze. In caso contrario, diremo addio a Baires, ugualmente soddisfatti seppur non felici: perché una «escalation» così come l’ha compiuta questa nostra squadra è già un’impresa enorme.

Gli argentini ci guardano con affetto e sbigottimento. Hanno naturalmente festeggiato il pareggio coi brasileri, invadendo strade e piazze, sporgendosi da camion imbandierati, sbucando da ogni bagagliaio di macchina con teste e stendardi e tromboni e fischietti. Dopo le paure subite a Rosario di fronte ai vari Toninho, «sentono» odore di finalissima. A gennaio sostenevano: sarebbe bello giocarsela tra di noi, cari fratelli italiani. Ora preferirebbero olandesi e tedeschi: ora hanno un pochino il «complesso», avendo perso la partita d’assaggio nel primo turno contro gli azzurri. Orazi e Curiazi Tra «criollos» e «cariocas» sono volati pugni, sputi, insulti, calci. La partita di Rosario ha annoverato feriti, barellati, sciancati, ammoniti, secondo ogni regola sudamericana. L’arbitro Palotai è un genio: naturalmente cinico. Ha lasciato che Orazi e Curiazi si massacrassero a vicenda. Forse desiderava anche lui che la gara finisse in sei contro sei, ma non espulsi, bensì ospedalizzati. Un’occhiatina casalinga l’ha concessa, ma con soave dominio della rissa collettiva. Ma cosa ce ne importa?

Dal novantesimo minuto in poi di Italia-Austria, non si parla che di noi, nel clan italiano. Tutti i riferimenti al calendario e alle possibilità altrui sbiadiscono al pensiero che gli azzurri debbono affrontare i tulipani e poi… E’ un «poi» indecifrabile. Già ieri hanno cominciato ad imperversare i consigli, le voglie, le diatribe di chi vorrebbe in squadra cinque o sei uomini nuovi. Come se questa Nazionale potesse all’improvviso «ridisegnare» se stessa e, nei cambiamenti, trovare una seconda immagine vincente. Qui non siamo — aprite bene gli orecchi — nella situazione di Città del Messico, quando si poteva alternare un uomo all’ormai smunto Domenghini o unificare Mazzola legandolo alle costole di Rivera. Qui il «collettivo» è dominante: questa Nazionale non può prescindere da Bettega e Rossi, Bettega non può fare a meno di Causio, mentre Causio si muove sapendo di trovare al fianco Tardelli e Benetti oppure Cabrini che fugge sulla fascia laterale. Si deve giocar «fiochi», perché rivoluzionare i reparti sarebbe una sfida suicida. Meglio «fiochi» che arruffoni e alla ricerca di schemi inusitati.

Il buon «vecio» può sostituire un uomo (durante la partita), ma non è certo in grado di alterare la fisionomia del «collettivo». E lo diciamo con tutto il rispetto che meritano i Sala e i Pulici. Dovremmo già ora ritenerci appagati. Soltanto gli scribi e i farisei hanno trovato da ridire su questa nostra Nazionale. Il popolo tifoso l’ha riscoperta con amore, la critica onesta ha subito scritto che un Club Italia così ben condotto, così portato al gioco, così moralmente fervido, non lo si vedeva da quarant’anni e più. Ma la tentazione è anch’essa irresistibile, fa persin male, anche a coloro che sanno vedere con realismo e non intendono illudersi. Speriamo perché è doveroso e bello. Abbiamo fede perché questa stessa fede i «fratellini azzurri» se la sono meritata in maniera amplissima. Ma conosciamo anche il loro attuale «grado» di forza, che naturalmente non è più quello dei primi di giugno. Le ansie, il sogno, i dubbi realistici o impossibili covano anche tra gli uomini di Bearzot, potete star certi.

I «bookmakers» di Londra, che sono astuti e di incallita esperienza, hanno abbassato le loro quotazioni a partire dagli inizi del «Mundial». Anche loro sono stati sorpresi da «questa» Italia. Ma oggi i calcoli (e mi scusi il signor computer) diventano stracci di nebbia, aria fritta, fuga di sensazioni contraddittorie. Oggi la realtà è lo stinco del signor Rep, così caro ai «granatieri» memori del Bastia. Oggi il muro da scalare si chiama Van De Kerkhof, si chiama Krol. Oggi la punta della lancia nemica è il muso affilatissimo di Rensenbrink. Qui non servono più le variazioni sul pallottoliere ma i polmoni e un briciolo di «suerte». Quando arrivammo secondi, nel ’70 in Messico, per poco non venimmo linciati all’aeroporto di Roma, al ritorno. Avremmo perso dieci volte su dieci davanti al Brasile del «rey» Pelé, anche possedendo un triplo Mazzola, un doppio Rivera e un Riva al cubo. Gli appetiti tifosi sono incontentabili e forse anche questa incontentabilità — unita ai sogni — dà forza al calcio.

Oggi è diverso. Siamo venuti in Argentina alla ricerca di una conferma dei nostri valori, alla caccia di un prestigio che risultava polveroso, se non addirittura perduto. Tali valori e tale prestigio hanno costituito una delle rare perle del «Mundial». Ho scritto fino a ieri l’altro: non lo vinceremo, questo titolo, ma lungo il sentiero del torneo abbiamo ridato un volto al football nostrano, abbiamo ritrovato una dignità di gioco decisiva per il futuro. Oggi, il sogno insiste. E’ pura follia, dico a me stesso e a voi, ma non possiamo vietarci di sognare. Sappiamo che i limiti di questa Nazionale sono interni, non esterni. Se Paolo Rossi non avesse giocato oltre settanta partite durante l’anno, ma avesse lo smalto della sua quarantesima gara, se Bettega avesse «ingrigliato» quei palloni nela rete tedesca, se Bellugi potesse venir fuori dai suoi acciacchi come il diavoletto di Cartesio: già, stiamo cadendo nelle tentazioni e nelle ipotesi, proprio noi che odiamo i «se» ed i «ma».

Non vietiamoci una visione rosea. Anche se poi sarà arancione, cioè color maglia tulipana. Il «vecio» sta programmando l’ultimo atto della sua spedizione in Crimea: conta i piccoli bersaglieri rimasti, gli palpa i muscoli logorati, ascolta le confidenze. E’ lui il medico e lo stratega. A noi tocca l’attesa, poche ma lunghe ore che ci riporteranno al «River», agli inni nazionali che alterano persino il volto del grande Zoff, agli schemi di una partita ostica e per adesso indecifrabile. Sperare non costa niente, dice un proverbio a cui fa seguito una sentenza piemontarda antica: sperare è la consolazione dei dannati. E noi, nel girone infernale del «Mundial», dannati siamo. Romeo Benetti, prima della partita con l’Austria, brontolava cupo: «Gli olandesi ne faranno tre, ai tedeschi» si è sbagliato. Buon segno. Apprestiamoci a questo penultimo o ultimo atto, degno di un Amleto in pantaloni corti.