Giovanni Arpino: Cronache Argentine

31 maggio 1978: Ci consuma i nervi lo stress da vigilia

L’inverno sta arrivando con rapide ventate, a Mar del Plata necessiterà la cuffia e i brasiliani, che già vi sono in ritiro, si disperano. Probabilmente il peggior sentimento umano è quello che divide un bianco argentino e un nero brasiliano: per questo lo squadrone gialloverde di Coutinho è stato messo a Mar del Plata, dove prima dei calci e degli insulti deve patire nevischio e folate gelide dall’Atlantico, un tempo che non spiace al nostro Bettega ma dà sui nervi ai «padri della patria pelotera», quali si ritengono i brasiliani. C’è poco da ridere anche a Baires, benché debba riconoscere subito una cosa: toccata la stupenda bistecca argentina, mi farò vegetariano, al ritorno. L’ultimo bue, possente e tenero, abita solo più qui. Però piove, la sala stampa dove si radunano gli inviati del «mundial» ha un aspetto da aeroporto con «moquette»: la gente scrive, telefona, strepita, litiga, pronostica, ma non si vede l’ora che comincino le partite. Solo quel fischio che darà il «via» potrà cancellare le troppe parole scritte, le illusioni e le satire, le cattiverie e gli inutili atti di buona volontà.

Un vecchio tenebroso ma convinto della propria dignità, mi dice: «Non c’è minuto della vita che non sia azzardo. Cosa è un giocatore di calcio? Un ragazzo con i riccioli e la faccia gentile oppure da bandito? No. E’ un numero, e su quel numero la gente gioca le sue illusioni. Mi permetta di aggiungerle: forza Italia». Mi ha fermato sull’angolo della grande «avenida» che porta al centro-stampa, ha un abito decente, e sulle spalle una leggera coperta di lana, una specie di singolare residuo «gaucho» che a Buenos Aires molti uomini indossano, verso sera. Mi ha fermato per due chiacchiere improvvise, senza alcuna ragione apparente, però attende che lo ringrazi per la sua cortesia e il rapido filosofare che ha donato. E cosi faccio, lo ringrazio, lui resta ancora un attimo a squadrarmi tra le fessure della palpebre, poi se ne va. Incontrerò altri uomini di questa specie: fanno il guardaportone ma fissano il vuoto con sguardo di imperatore stanco, fumano la sigaretta con una melanconia che si ritrova solo nelle pagine dedicate da Luis Torge Borges al vecchio quartiere Palermo, perla di Baires.

Ma sia pur calcio, sia pur l’ora per le teste più o meno ricciolute dei giocatori. La prima pagina di un quotidiano disegna il mondo come un pallone, e l’appendice (schiarita geograficamente) dell’Argentina vi sta dentro, mentre oscuri e lontani sono gli altri visceri. Sia calcio, anche se non tira aria di festa e il grido, un po’ cordiale un po’ devoto, di «forza Italia» ha qualcosa di obbligatorio. Forse l’arduo battesimo alla «Bombonera» durante l’ultimo allenamento azzurro porterà bene alla Nazionale del «vecio». Chi non conosce la «Bombonera» mi dia retta: è come un deputato che ignora il Parlamento, e come un vescovo che non ha mai messo piede in una basilica. La «Bombonera» allinea in senso verticale cinquantamila persone, che sono letteralmente costrette a veder football più di chi gioca e più dell’arbitro. E’ meglio di un palco alla Scala. E’ meglio di un cinema privato. Se caschi giù, precipiti direttamente sul gesso da dove si tirano i calci di rigore, tanto per aggiungere una spiegazione balistica.

Naturalmente non si giocherà alla «Bombonera» nessuna partita del «mundial». Gli stadi designati sono altri, e magari fangosi come quelli del Plata. Ma non è detto che quel battesimo non sia servito alla ciurma di Bearzot. II quale, naturalmente, è stato molto criticato, ma pochi hanno tenuto conto che lui doveva «controllare» i suoi prodi e ha corso i rischi necessari. Questi rischi nessun altro «generale da panchina» ha voluto assumerseli: chi ha rinunziato all’esibizione, chi ha sostenuto partitelle a porte chiuse, pur di evitare tifosi e tribù di critici, come sempre occhiuti e pronti a spargere sale sulle piaghe ancora aperte. Bearzot dice: «Il tono della squadra migliora». Non aggiunge: sarebbe necessario ancora un mesetto per riprendere il ritmo più confacente ad un «mundial». E’ il famoso mesetto che ci manca sempre, che viene ingoiato dal campionato, dall’estate, dal desiderio di vacanza, insomma dalle nostre abitudini pallonare ed extra-pallonare. Ma il «vecio» sa leggere negli occhi dei giocatori, e li giudica persino quando attraversano un corridoio dell’albergo. Se questa «conoscenza» non si traduce realisticamente in forza, cioè in risultati sul campo, che dire? E che dire di un Torino — bisogna pur iniziare questo esame — il quale forniva un piccolo ma sostanzioso nugolo di uomini al Club Italia e se li vede ridurre in proporzioni allarmanti?

Inutile processare qui ed ora un certo tipo di conduzione societaria o di professionismo malinteso da parte di questo o quell’elemento. La brutalità del calendario e degli scopi azzurri non concede sosta o ripensamenti. Nulla è più «stressante» di queste lunghe vigilie. Si vive in un clima irreale, spendendo vane chiacchiere, in attesa di chissà quali notizie, sperando in un «colpaccio» giornalistico che tarda, che sfuma, che diventa un fantasma. Cammino su un marciapiedi sconnesso che rasenta la grande «avenida» centrale, leggo un quotidiano di Baires che lamenta pudicamente la crescita dei prezzi. Ma altrettanto inventarono i miliardari tedeschi nel «mondiale» di quattro anni fa: l’appetito che desta una manifestazione sportiva di questa misura aizza osti e albergatori, venditori di bibite e organismi ben più importanti. Meglio ripiegare sulle notizie sportive. Ecco la Svezia presentata come una grande incognita, ecco il solito H.H. che parla del «pericolo Perù», ecco gli olandesi ridanciani perché dotati di alta professionalità mai disgiunta dal senso del gioco, del vitalismo congenito, della sfida contro ogni diga e ogni avversario.

Ecco, infine, le «glorie» del mondo pelotero: tutti parlano di equilibrio, di squadre ben preparate (ma che bravi, predicando da fuori) e di sorprese, si tratti di Stanley Rous, ex presidente della Fifa o di un ex giocatore che non smette mai di pronunciare frasi condite da un «ai miei tempi». Peccato che non possa ricopiare per voi una pagina del giornale argentino Clarin, … che rifa la storia del «negro genial», cioè Pelé, di Beckenbauer suo «delfino», di Cruyff «principe senza corona». Si tratta di un’autentica «odissea» pallonara, con una magniloquenza che mette Omero in soffitta. Perché si dice: il football continua vivendo, ma chi giocò ieri, e sparì, è sempre più forte di chi mette le brache corte oggi. Nessun Paese è più nostalgico dell’Argentina, alla quale assomigliamo fin troppo.

Nel loro ritiro dell’«Hindu Club» gli azzurri consumano il tempo sperando di non consumare ulteriormente i nervi. Facchetti ha detto a destra e a manca che questa trasferta «mondiale» è la meglio organizzata, Zoff ti guarda da Zoff, serio e pensoso, Pecci divora libri (dev’essere diventato di colpo, lui spregioso delle pagine, il bibliotecario della tribù) e l’insieme non è affatto di lusso come hanno scritto alcuni «inviati». Splendida è l’erba, e la cornice, lo spazio, però ragiona giustamente Bruno Bernardi, che brontola: «E’ l’ospizio dei “poveri vecchi” incastonato in un parco inglese». E va bene. Dei «poveri vecchi» o dei «poveri giovani» nostrani, chi sa dire quanti sono disposti al rischio dei legamenti d’un ginocchio per andare avanti in un «mundial»? A parte il vincere, a parte la fortuna, a parte gli errori più o meno fatali e più o meno veniali giocando, chi possiede questa tensione intima, questa voglia totale e superiore? Il «vecio», non c’è alcun dubbio, ma deve trasferirla negli animi di chi giocherà, ed è necessario che gli animi siano ben ricettivi, ben pronti. Altrimenti — a parte ogni risultato e ogni classifica — è l’intero Club Italia che arretra, che denuncerebbe scarsa dote morale nei singoli, malgrado il lungo lavoro e la costante applicazione del nostro commissario.

Veniamo ad un brevissimo esempio, che riguarda proprio la Francia, nostra esaminatrice e nostro scoglio nel primo incontro: il nero Tresor, dopo aver denunciato paturnie psichiche, logorio nervoso, dopo aver dimostrato una nausea che gli derivava sia dal pallone sia dalla «negritudine» sia dalla paura di smarrirsi e perdere la faccia, pare abbia recuperato la rabbia, la voglia, che in lui sono garanzie anche di stile. Bene: mi domando chi impedirà a Tresor di scendere dalla sua zona di «libero» durante la partita con gli azzurri. Bettega, forse? O Paolino Rossi incapace di falli? O dovrà intervenire lo zampone di Benetti prima e la falce di Bellugi poi, ma ormai nella nostra zona? E’ un piccolo particolare tecnico e di battaglia, ma conta. Se non ci aggrappiamo anche a questi elementi, o amici, la nostra posizione di «inviati» rischia di trasformarsi, a Baires, in personaggi alla De Filippo: «Questi fantasmi», appunto.