Giovanni Arpino: Cronache Argentine

1 giugno 1978: Colloquio verità col Vecjo Bearzot

Un vento gelido fa tremare l’erba dell’« Hindu Club » nelle ultime ore del « ritiro » azzurro. E’ tempo di far fagotto e volare a Mar del Plata, ma ancora Facchetti si stringe nell’impermeabile per «studiare» i francesi che si allenano su un campo lontano, ed ancora Bearzot risponde alle domande della tribù giornalistica che lo assedia e faticosamente distilla il milionesimo, inutile interrogativo. A questo «Hindu Club» si arriva percorrendo un intrico di autostrade argentine dove le direzioni di marcia d’ogni camion, d’ogni vettura, autocarri dell’immondezza, ambulanze e veicoli che portano sul didietro la scritta «Peligro, explosivo» si tuffano ad altissima velocità e sempre su linee diagonali, perdendo ruggini e lembi di carrozzerie, passando da destra a sinistra, tagliando curve e piazzole, inventando a ogni sorpasso un’occasione da «sfida all’o.k. corral». Niki Lauda non le percorrerebbe nemmeno dentro un carro armato.

Forse per queste ragioni i grandi papaveri della critica nostrana non sono mai venuti al «ritiro». Inviano i loro sciacalli ed informatori per ricavare notizie e così, di seconda o terza mano, redigono le loro auguste prediche. Non hanno mai guardato negli occhi, neppure una volta sola, il «vecio» e la sua ciurma, siedono come piccoli Buddha nel fortilizio degli alberghi e lì «giocano» le loro mosse, inventando magari Pecci libero e piangendo su Bigon lasciato a casa. E’ un costume inverecondo, che certo non ha appreso granché dai diligenti critici del passato, è un costume che sdottora ignorando i personaggi in carne ed ossa e la loro realtà. Ancora una volta, come Ludwigsburg o Città del Messico, anche l’«Hindu Club» sottolinea la prosopopea di certi avvocati del diavolo, che riempiono pagine di giornali solo perché possiedono inchiostri.

Batte l’ora del «mundial» e l’inverno galoppa con raffiche che arrivano dall’Antartide, la voce di Bearzot è rauca per l’alternanza di sudori d’allenamento e discussioni con i cronisti, attenti anche al pelo nell’uovo. Scruto da lontano il «vecio», mi ricorda certi vecchi e coriacei politici o generali del Risorgimento, costretti a far trattati e guerre con potenze ben altrimenti forti e arroganti. Forse, per lui, Mar del Plata sarà una Crimea, e la sua banda di ragazzoni (fiduciosi, leali come mai in precedenti edizioni dei «mondiali», bisogna ripeterlo) sarà una pattuglia di piccoli bersaglieri alla ricerca di prestigio.

Un giornalista argentino interroga Enzo: «Lei è l’unico commissario che non abbia sparato grida di vittoria. Persino la Scozia dice d’essere qui per vincere, come mai?». Bearzot sogghigna: «Gli scozzesi sono ottimi giocatori, infatti riforniscono da tempo le squadre britanniche costituendone la crema. Se non litigano dopo dieci giorni di convivenza, come sovente gli capila, se non si mettono a bere e a scazzottarsi tra di loro, figureranno al massimo». Riprende l’argentino: «Helenio Herrera dice… ». Scatta Bearzot: «Dica, dica, non m’interessa un fico secco». «Lei non crede che l’Italia possa vincere?», insiste l’argentino. «lo credo in questa squadra, che ha problemi di condizione ma non di volontà e di maturità», si trincera tra le rughe il vecchio. «La prima partita può essere fatale. Lei deve vincerla ad ogni costo». «Certo, bisogna vincerla», annuisce Bearzot: «Ma non per creare euforie eccessive, che pagheremmo subito nella seconda gara. Potrebbe anche andarmi bene un pareggio, dico in teoria». «Che disposizioni ha preso per annullare le punizioni di Platini?», vien fuori un bel tipo. «E le dovevo provare proprio qui certe punizioni e contromosse?» risponde paziente, un po’ stanco ma attento, Bearzot: «Ma allora, visto che ci siamo, facciamo attraversare il prato anche a Platini, che sta dall’altra parte, e facciamogliele battere, certe punizioni. Ci penseremo, ci abbiamo pensato e torneremo a pensarci al momento opportuno».

Scoppia un’immediata cagnara di domande incrociate. Volano a tutta raggiera tanto che se nello stanzone passasse un colombo crollerebbe crivellato da sillabe, saliva, punti interrogativi e fiati d’ogni natura. I discorsi si sfaldano, chi cerca sottilmente una dichiarazione a proposito di Rossi, chi invita presenti ed assenti a catechizzare Scirea: che picchi, per tutti i santi. Rossi e Cabrini sono scomparsi tra nugoli di taccuini e stilografiche, Gigi Peronace saetta qua e là distribuendo cravatte e cartoline ai colleghi stranieri, i vetri tintinnano per le raffiche di vento, e io dico a Bearzot: attento, perché se vinci, correranno a correggere anche la vostra vittoria, certi tipi. «Io sono qui per accollarmi insulti, sputi, responsabilità, tutto», digrigna lui: «E’ il mio compito. Lo accetto. Mi piacerebbe, anzi pretendo d’essere rispettato, vorrei che le mie parole non venissero distorte. Sono sempre stato disponibile verso tutti coloro che hanno il dovere dell’informazione, ma troppi di questi non sentono che solo una parte di quanto qui si dice. Alla mattina ci telefonano dall’Italia i titoli e i riassunti di certi giornali: c’è troppa malafede».

Tira il fiato, si guarda intorno, con un lampo degli occhi controllando il sorriso onesto di Rossi, la faccia concentrata di Cabrini. Poi aggiunge: «Non c’è mai stato, qui, un momento di tensione o di isteria come nel ’74. Non abbiamo dovuto aprire il reparto psichiatrico». Hai lavorato in profondità, cercando di ridare un volto al club Italia, disintegratosi diversi anni fa. Ora sarebbe il momento di cogliere un frutto, se non la più bella fragola, almeno una nocciolina. La squadra ha autonomia ridotta, ha lacune a centrocampo, però non denuncia nervi a pezzi e l’innesto di due ragazzi può renderla più fervida, più vogliosa. Ma tu, Enzo, dentro, come ti senti? «Tranquillo», assicura Bearzot: «Con la coscienza in pace. Con la certezza d’aver fatto tutto il possibile. Con la sicurezza di aver aiutato ciascuno di questi ragazzi ,anche in proiezione futura. Questo è il mio compito. Non siamo una squadra di fenomeni, ma bisogna aver fiducia. Nessuno credeva al nostro sbarco in Argentina e oggi si vuole il frutto, come dici tu. Arrivare al “mundial” era il frutto. Adesso cosa si pretende, tutta la pianta, tutto il frutteto? Ben venga. Perché non siamo fenomeni, ripeto, ma se si ritrova una vena, molte cose potrebbero accadere».

Si deve interrompere, chinarsi su un altro microfono, firmare un pacco di cartoline, ricordare Schiaffino con un vecchio signore che è venuto apposta per sapere come e quanto l’asso sudamericano sia stimato da Bearzot, che incrociò con lui i bulloni negli Anni Cinquanta. E’ difficile immaginare come siano sfumate, eterne, insidiose queste ore di inedia solo apparente. Covano venti segreti, tarli che rodono il fegato e il cervello. Giocare è niente, al confronto. L’ideale per un «mundial» sarebbe: giungere la sera prima in aereo nella città deputata e giocarvi la partita il giorno dopo all’alba, appena svegli. Come fanno certi scacchisti: tra incontri e allenamenti con il classico « professore » che tengono alle calcagna non vedono neppure il cielo straniero che li copre. L’attesa, giunta agli sgoccioli della vigilia, è talmente enorme che pare un muro, mobile, trasparente ma infinito. Sembra di poterlo toccare con la mano.

Bearzot adesso tace. Facciamo due passi guardando il prato dell’«Hindu». Il «mucchio selvaggio» degli avversari è laggiù, invisibile, pur rivestendo nomi e cognomi precisi. Non tutti sono autentici stranieri, molti hanno un volto, anzi un ghigno casalingo. Si tratta di quelli che se la godono solo a veder perdere. Nella sconfitta trovano nutrimento sublime, e quasi il genio del giudizio negativo. «Forse è un difetto credere nell’umanità e voler bene a tutti» sospira improvvisamente il «vecio». Forse è un difetto voler trasformare un gioco in una guerra, una politica, un Barnum, un’industria, cerco di obbiettare. «Ma se non fosse anche queste cose, che gioco sarebbe?», torna a ridere Enzo. Riprendo io: questi francesotti sono allegri, si divertono, non hanno niente da perdere, possiedono quel tanto di boria che ogni «coq» allevato a Parigi o a Marsiglia sfodera sia negli affari sia al bar. Non regaliamogli una briciola di «gioire», per favore.

Enzo ride: « Perché noi saremmo invece piccoli, fessi, paurosi, pecore timide, cercheremo di ribellarci alla leggenda ». Attento, gli aggiungo: questo è un Paese strano, dove nelle edicole, accanto ai giornali e alle bandierine del football sventolano certi fogli di seta che portano sonetti. Valgono come dichiarazioni d’amore o come promemoria di tristezze. Ed è anche un Paese povero dove però tutti mangiano due enormi bistecche al giorno. E’ uno strano pianeta capovolto. Bearzot ascolta, il volto sempre più inciso dalle sue rughe indie. «E’ l’ora, amigo», brontola. Cosa dirai ai tuoi prodi prima di entrare in campo, domani? «Sempre le stesse parole», si irrigidisce Enzo: «E cioè: siete uomini, agite da uomini. Perché questo conta. Il resto è solo tattica».