Giovanni Arpino: Cronache Argentine

17 giugno 1978: Chiacchiere mentre fuori diluvia

E’ un mezzogiorno speditoci direttamente dall’inferno. Sembra di galleggiare nella pece. Ogni angolo di Baires è una scheggia bituminosa, ogni strada è un torrente, ogni piazza è un lago. Chi è andato all’«Hindu Club» a visitare gli azzurri tornerà con l’incubo di certi protagonisti fantascientifici che abitano un mondo dove piove sempre: le grandi «carreteras» sono ingombre di camion rovesciati e chi sa guidare procede a muso storto, come i motoscafi. Questo non è un uragano, ma l’anticipo del diluvio, anche se i cittadini di Baires, remissivi, rassegnati a tutto (ma non a perdere il Mundial, beninteso) lo definiscono «una aguada». Altrove il diluvio è autentico: nella provincia di Misiones, ad esempio, le strade scompaiono, la fanghiglia cresce fino a un metro e mezzo, terra, d’un rosso violento, sembra bollire come durante un terremoto. Ma ci basta cosa succede qui nella capitale federale: se cerchi di attraversare un solo tratto di marciapiedi, puoi buttar le scarpe, dopo.

A molti non resta che far circolo e chiacchiera ricreativa nel centro-stampa, dove arriveranno anche Franchi e Carraro. C’è chi mastica amaro per i mancati gol di Bettega, chi pretende «escalation» al titolo, chi teorizza sui brasiliani, chi filosofeggia sul football come spettacolo «ingiusto» e proprio per questa ragione eterno, popolare: distribuendo «ingiustizie» ad Argentina o Italia o Perù o Polonia, il fascino resta intatto, il popolo dell’intero pianeta soggiace al richiamo e al mistero. Sui giornali argentini ricompare Jorge Luis Borges, sempre lieto di concedere interviste e malignità talora sublimi. Il vecchio scrittore cieco ama esporre vezzi verbali che lo fanno definire un «nino terrible» malgrado sia nato nell’altro secolo. Detesta il calcio, lo considera uno sport «stupido», una «miseria», una «frivolezza» che fa spendere troppi soldi in alberghi e campi da gioco. Preferisce il duello autentico, che sportivamente si ritrova solo nel pugilato (Omar Sivori gli ha risposto brutalmente: ma come fa a giudicare, se non ci vede?).

Per il lettore dal palato fine trascriverò qui alcune delle ultime battute filosofanti di Borges. Ha dichiarato che la psicanalisi è solo il lato osceno della fantascienza, ha ribadito di sentirsi anarchico ma in disaccordo con la società capitalistica, per cui crede nella dittatura militare (in altra occasione sostenne che solo i militari possono aver diritto al governo perché sanno portare i guanti). Borges si diverte a seminare scandalo, e va capito: la sua stessa statura di mito lo costringe a demistificazioni continue, che nascondono un segreto, la noia e l’orrore del vivere. Ma so che il lettore mi attende a diatribe e narrazioni pallonistiche. Eccomi, o lontano fantasma. Oggi è giorno di diluvio e di pace sull’erba fradicia di ogni campo da gioco. Cerchiamo di sorridere.

La prima è questa, e riguarda un noto reporter televisivo. Confonde i giocatori (Tardelli per Cabrini) ma non lo si può certo condannare: lui era abituato da tempo a star tra le nuvole con gli astronauti. E’ di aspetto dolce e mansueto, ma rigorosissimo a rifar riprese — il cui costo ignoriamo per pudore — se non gli riesce subito la battuta. I colleghi lo chiamano il «sano immaginario», perché dietro quell’aspetto sportivo cova dubbi e mal di pancia, ma non ditelo a nessuno, sennò con «mamma Rai» ho chiuso. Poi, c’è la valutazione che i critici argentini distribuiscono nei loro giornali pesanti tre chili l’uno. Se hai tre palloni-gol e non li metti dentro, puoi chiamarti Bettega, essere considerato un «clasico de la pelota» ma ti affibbiano «quattro» come ad Antognoni. Se lavori poco e pari un solo pallone gol non avendone altri da prendere tra le mani e ti chiami Zoff, anche se sei San Dino ti becchi solo «sei».

Conta la quantità della realizzazione, insomma, altre finezze, altri «distinguo» non vengono ridotti a cifra. Ora darò retta ad un ignoto (ma forse è uno scherzo) che mi ha inviato un telegramma richiedendomi altre storielle di gusto «porteno», cioè tipiche di Baires. Mio caro — dico subito come premessa — non spenda soldi alla posta, queste storielle le raccatto con fatica e gliele invio come ultimo capitolo. Non appartengo a quella strana specie di italiani (tutti grassissimi, dipinti, imbrillantinati, che qui lavorano come comici in un varietà che ricorda i nostri Anni Venti: sono volgari ma con grazia, parlano sboccatamente ma con reticenza, si circondano di «soubrettine» piene di cipria e lustrini che farebbero singhiozzare un vecchio degustatore degli avanspettacoli torinesi e milanesi).

Ecco le storielle di gusto «porteno»: c’è un indio nel deserto, non mangia e non beve da tre giorni, non fa che trascinarsi sulle croste d’un territorio bruciato dal sole. Cade a terra, e cadendo trova una vecchia lampada di tipo orientale, arrugginita. Forse è quella magica, pensa il povero indio, e la strofina. In effetti, gli appare il genio benefico. Chiedimi tre cose e sarai esaudito, gli si inchina il genio. L’indio riesce a balbettare: muoio di sete, voglio un recipiente d’acqua. Il genio gli oppone: tre cose una dietro l’altra, o non avrai nulla. E l’indio, cercando di non smarrire la ragione e sentendo che è venuto il momento per rifarsi la vita, enumera: il recipiente d’acqua, il desiderio di essere bianco, ma d’un bianco splendido e — come terzo prodigio — che tutte le donne, vedendolo, gli si buttino addosso. Il genio obbedisce e lo trasforma in un bidet.

Torniamo al «balun», che tutti ci condiziona. Gli argentini, dopo i due gol di Kempes alla Polonia di Deyna ectoplasmico, pensano di poter arrivare fino all’ultimo gradino della scala mondiale. La gara di domani con il Brasile potrà essere decisiva. Artemio Franchi, vicepresidente della Fifa e presidente della commissione arbitrale, confida che per la scelta dell’arbitro hanno ponderato, in sei, ben tre ore e mezzo. Sarà — come abbiamo già scritto — l’ungherese Palotai, garanzia massima. Si è escluso che potesse fischiettare un sudamericano, sempre tendente alle espulsioni. Già alcuni mesi fa, nientemeno che Kissinger, amatore di football, sostenne che una «finale» tra sudamericani si sarebbe consumata come orgia di randellate per finire tre a tre. Non gol, sia chiaro, ma tre uomini ancora in campo al novantesimo minuto contro altri tre. Per evitare questa partita tra Orazi e Curiazi, ecco dunque Palotai: ma l’attesa degli «aficionados» è già cruenta. Per un biglietto che consente di entrare nello stadio di Rosario, un argentino darebbe tutto, denari e famiglia, il posto di lavoro e l’automobile.

Ed ecco un discorso di Artemio Franchi che ci riguarda da vicino. Dice il nostro «granduca», sotto- lineando le parole: «Il bel gioco degli azzurri, la loro correttezza in campo, i loro spiriti battaglieri ma lealissimi sono stati visti dai diversi arbitri come un fatto straordinario. Questo è già un patrimonio che abbiamo messo in cassaforte e che dovremo non perdere nei prossimi anni. L’immagine che la squadra italiana ha dato di se stessa è talmente positiva che va valutata per le proiezioni future, sia a livello di club sia a livello di nazionale». Poi, naturalmente, con ironia senese, il granduca aggiunge: «Naturalmente, era più divertente, per me, vedere giocatori catenacciari che si difendevano per ottananove minuti e andavano in gol, o magari vincevano per autogol,al novantesimo. Sono un uomo del “palio”, o no?». Ma sprizza felicità dagli occhi. Il calcio ben condotto e bene svolto sul campo riesce ad allargare i suoi cerchi in molte direzioni, offre credibilità, impone rispetto, stimola curiosità.

Molto esplicitamente, ci vien domandato sei volte al giorno: come mai da un’Italia così mal ridotta e angosciata siete riusciti ad esportare un gruppo d’uomini che funziona tanto bene? Non è sempre facile rispondere, credete a me. Dopo il primo turno del girone finale tutti stanno mettendo la sordina, nascondendo le grancasse usate fino a ieri l’altro. Allenatori come Happel (l’austriaco al soldo olandese) e commentatori come Lorenzo non indicano più un «favorito», gli equilibri sono strani ma anche logici e affascinanti. Alla Germania mancano «punteros», agli argentini mancano centrocampisti di cervello (tranne Ardiles), ai brasiliani fanno difetto i «goleadores» che sappiano tradurre in rete il lungo lavoro ai fianchi a cui i giallo-zerdi sottopongono l’avversario, asfissiandolo a furia di passaggi. Agli olandesi non manca nulla, forse, tranne qualche anno in meno e il genio di Cruyff.

E agli azzurri? Non vogliamo porci questi interrogativi, che stonano in un momento di fiducia e che potrebbero solo innervosire chi ha seguito, qui a casa, i «passi» della nostra nazionale. Non dobbiamo darci un «test» al giorno, bisogna veramente affrontare le partite che restano senza perdere un filo dell’allegria di gioco, della calma, della sapienza tattica che ha saputo venir fuori nelle fasi più limpide. Nel giorno in cui tutti i vanagloriosi depongono le loro borie e dichiarano che bisogna star coi piedi ben piantati in terra, a noi tocca continuare proprio in ugual modo, avendolo scelto al momento dello sbarco a Baires ed anche prima. Lontani dai climi isterici di casa nostra, ogni elemento del Club Italia ha dato quanto aveva in corpo, senza scomporsi e senza sentirsi alienato da troppe pretese. La partita con l’Austria potrà offrire l’ultima verifica, al di là del «Mundialito» che oramai Enzo Bearzot tiene in cuore. Accada quel che può, tra i sogni proibiti e quelli rosei ma chiusi nel cassetto, e senza badare a coloro che oggi vorrebbero non solo questo Mundial ma anche una mandria di buoi da portarsi a casa. Datemi retta: liberatevi anche voi, nelle vostre congetture, degli avvocati diabolici, come ha saputo fare questa nostra Nazionale.