Giovanni Arpino: Cronache Argentine

2 giugno 1978: Ora vamos con Rossi e Cabrini

Ecco finalmente il «via» azzurro, ecco l’ora in cui i fratellini d’Italia debbono affrontare e possibilmente vincere «Les enfants de la Patrie». Non vorremmo cadere nella retorica, ma i ragazzi di Enzo Bearzot, che oggi misureranno i bulloni con i «coqs» di Hidalgo, hanno incontrato a Mar del Plata la tipica commozione degli italiani d’Argentina: dopo i cortei, i pianti, i brindisi, gli sventolìi (lasciateceli toccare, strillavano donne anziane e materne) dopo la commozione dell’intera comunità, tocca ai «piedi buoni» della squadra convincere la critica, il pubblico, persino se stessi. Hidalgo e Bearzot, da mesi, studiano questa partita, dopo le «mosse amichevoli» nel febbraio di Napoli. Hanno dovuto rivoluzionare alcune carte nei rispettivi mazzi, il « mister » francese rinuncia a Bathenay ma può recuperare Tresor, il «vecio» lancia la giovanissima ditta «Cabrini e Rossi», che con la tutela di Bobby, gli spunti (sperabili) di Antognoni, ed i suggerimenti (guai se mancassero) di Causio e la protezione di Benetti, dovrebbero far fuori i francesi. I quali sono sbarazzini quanto mai, almeno per quel che dicono, almeno per quanto han fatto vedere, ma un debutto in un «Mundial» conterà pure qualcosa.

Un grigio, gelido, ventoso Atlantico lambisce l’enorme baia di Mar del Plata, raffiche sinistre fanno scricchiolare finestre e ossa durante certe ore. La città è un agglomerato che moltiplica Riccione, Rimini, Las Vegas e Alassio tutti insieme, il Casinò pare sia il più grande del mondo, certo ricorda la funerea struttura d’un’arena, la gente lo assiepa all’impiedi, spendendo «pesos» su tavoli di plastica. Mancano sedie, gentilezza da parte dei truci manovratori del gioco, manca uno stile evidentemente non indispensabile: gettar soldi su un numero è più che sufficiente come operazione bruta, e il Casinò di Mar del Plata svolge la sua funzione di mattatoio degli illusi in maniera efficientissima. Sull’erba umida e dura del nuovissimo stadio, Bearzot e Hidalgo giocheranno invece ben altre speranze, alla ricerca di una certezza ancora fumosa. Le due squadre hanno bisogno, ciascuna a suo modo, di ritrovarsi, di riconoscersi nello specchio di questa partita, delicatissima e forse decisiva per il girone: una sconfitta pregiudicherebbe, in modo non matematico ma senz’altro dal punto psicologico, le «chances» azzurre o francesi. Un pareggio, anche se combattuto e nobile, non accontenterebbe di sicuro il pubblico e neppure i giocatori, che vedrebbero il successivo incontro come ultima e feroce spiaggia.

Bearzot ha lavorato in profondità, spiegando tutto, interessandosi di tutto. Per cinque giorni iniziali è apparso chiuso, quasi triste, come se l’attesa del «miglioramento» del tono azzurro lo angustiasse fin nell’ultimo budello. Poi gli è tornato un minimo di sorriso, è chiaro che i ragazzi hanno recuperato (almeno il trenta per cento, anche se non vogliamo quantificare le impressioni del professor Vecchiet). Oggi la speranza torna a sventolare, il desiderio di gioco è notevole in ognuno. A chi gli rimproverava di aver sbagliato sei o sette «tackles» durante l’ultimo allenamento con il «Deportivo» a Baires, Romeo «Panzer» Benetti ha risposto sogghignando: «Ma quelli erano “tackles”, secondo voi?». La Francia ha doti di fondo e di gagliardia morale che sappiamo non sottovalutabili. Gli azzurri hanno provato a Napoli queste caratteristiche dei rivali, patendo» un secondo tempo i che vedeva i «coqs» al recupero con diligenza e ostinazione.

Le due squadre si equivalgono — sulla carta — ma solo perché tutti noi ignoriamo il grado di forma e di freschezza ritrovate dai vari Tardelli e Antognoni e Causio. In altra stagione, non avremmo alcun dubbio sull’esito del confronto. Tirano raffiche d’un vento davvero boia. Ciascuno ha sfoderato sciarponi e cuffie, come nel più assurdo Natale di casa nostra. Vedremo i giocatori fumare dalle narici più di cavalli in un derby. E’ aria sana, che fa disperare al pensiero della no- stra estate, ma riempie i polmoni in giusta misura e Bettega la beve con gusto. Un paio di giornalisti d’antico pelo, vedendo Cabrini in allenamento, hanno mormorato: «Esto es uno de los tres muchachos del Mundial ». Vedendo poi Paolo Rossi, un’antica volpe quale Carniglia ha dato in giulive esclamazioni affermando: «E’ uno dei rarissimi giocatori nella storia d’Italia che corra senza palla, e quando ha la palla la tiene a un millimetro dal piede, con una naturalezza straordinaria».

Grazie mille, conosciamo le iperboli della critica calcistica, da queste parti. Per un paio di giorni, talora per un mese, anche l’ultimo fantaccino viene considerato un «fenomeno», un tipo «tremendo», un nome da sillabare triplicando ogni vocale. Poi torna a fare il barbiere o il barista. Naturalmente vogliamo credere fermamente in questi pareri, che in buona misura ripetono cosa pensiamo anche noi: l’occasione per la ditta «Cabrini e Rossi» è assai importante (magari salverà dai guai e dai garbugli persino un presidente, a Vicenza). Sia «el partido», finalmente. Sia un debutto ragionato e plausibile. Il «vecio» merita un minimo di fortuna, ha lavorato con spirito missionario autentico: non sempre, anzi raramente, un uomo onesto e laborioso viene ricompensato dai giochi della sorte, ma allora sarebbe davvero un peccato, quasi un crimine al cospetto di questo cielo grigio e ostile.

Dice il buon Enzo, ripetendo concetti spremuti da mille discorsi: «Un Mundial è una corsa a tappe, ma rapidissima, da correre come in ciclismo si corrono tre “classiche” di seguito. Ci vuole fondo, ma anche accortezza». Penso che leverà ogni briglia alla squadra, inizialmente, per poi trattenerla in certe fasi (sempreché Tardelli non si ubriachi della sua stessa foga: il bravo «Schizzo» deve ancorarsi ad un uomo, cioè Platini, e annullarlo, e su di lui «riposarsi»: questo gli ha ordinato Bearzot, altrimenti non mi stupirei se lo vedessi in staffetta durante la ripresa). I francesi hanno schemi larghi, ali vere, un centrocampo che sa elaborar gioco con accanimento. Noi abbiamo ancora qualche puntino di sospensione critica dietro i nomi di Antognoni e del «baron» Causio. Ma sono i migliori «atipici» della nostra scuola recente, e se imbroccano i loro quarti d’ora di gran vena, si andrà sul sicuro.

Per ormai vecchia esperienza, al commosso e commovente tifo italiano locale non dò peso se non in senso affettivo. Grazie alla spinta degli emigranti di Stoccarda, avremmo dovuto disintegrare l’Argentina e poi la Polonia, quattro anni fa. Ed invece sul campo Rivera inciampicava nei propri talloni, Riva pareva un coccodrillo in letargo e furono tolti di squadra a furor di popolo più che per pressioni di clan. Il tifo è bello e lo senti come un vento propizio quando stai andando bene. Se stenti, se non trovi il bandolo della matassa, contribuisce invece a creare angoscia, avvelena gli stimoli, leva lucidità. Vorrei pensare ancora per un attimo a Enzo Bearzot, questo coriaceo capitano della banda azzurra: è arrivato al suo «test» di laurea, su queste spiagge dove andrebbe in esilio un principe dell’Ottocento. Chi Io stima, chi gli è affezionato, da Torino a Londra a Buenos Aires, vive con lui questo suo stesso momento e riceve ancora una volta conforto dalla sua calma, che forse è un abito mentale, ma di grande efficacia e da stimare profondamente. «Vamos», allora, qui è il fosso (anzi l’oceano) e qui salta, o fratellino azzurro.

Altre parole non vi sono più, in queste ultime settimane sono stati saccheggiati tutti i vocabolari, si sono rivoltati tutti i temi, veri e astratti, capziosi e realistici. In novanta minuti la nazionale deve sturare dalla bottiglia il vino e il profumo di questo vino. Ciascuno di noi, ciascuno di voi ha, a modo suo, «rifatto» questa partita, partendo da Napoli, ricordando le punizioni di Platini, e fino al fischio iniziale spaccherà ancora il capello in quattro pensando a Gentile, che nel ruoli di terzino destro non può certo «rendere» come a sinistra, pensando alle avanzate di Tresor e al primo che cercherà di contrastarle nella zona del terreno francese. Sono le squisitezze dialettiche che levano il sonno ai tifosi. Ma per fortuna ora le chiacchiere sono finite. Tocca ai «piedi buoni», oltreché a quelli professionalmente rozzi ma utili. Egregio «mister» Hidalgo (o « monsieur » o « sefior ») lei è molto simpatico, è molto gentile, è molto vispo nella sua umanità. Ma ci perdoni: vogliamo incontrarla oggi e poi mai più. Se vincono gli azzurri, potremo dirle addio con la dovuta riverenza.